01 Marzo 2018 · 8891 Views

Giotto, imitatore della natura?

Giotto imitava la natura?

Il pittore più grande del Trecento, rinnovatore dello spirito della pittura, interprete e superatore, a un tempo, del gotico, fu Giotto.

Credette Cimabue nella pittura
tener lo campo ed ora ha Giotto
il grido sì che la fama a di colui oscura.

La terzina di Dante ci fa intendere l'universalità della sua fama. Cimabue, il grande romanico tutto moto e passione, è vinto da Giotto che la leggenda vuole da lui scoperto nell'atto di disegnare, fanciullo e pastore di greggi, una pecorella. A questa leggenda si connette il giudizio tradizionale attorno all'arte di Giotto e al suo sentimento della realtà naturale ed umana. Giotto «imitatore della natura». In questa ipotetica disposizione gli antichi vollero vedere il carattere fondamentale dell'arte giottesca non solo, ma anche il suo valore di forza rinnovatrice. La critica moderna respinge, come si può intendere facilmente, questa interpretazione. Giotto è tutt'altro che un imitatore della natura. E che cosa è, poi, che cosa vale più il concetto dell'arte-imitazione della natura?
Basterebbe guardare soltanto al rapporto di misura tra le figure e l'ambiente, tra i personaggi del dramma sacro e le architetture, le piante, le montagne, per accorgersi che Giotto fu tutt'altro che imitatore della natura. Ma, come questo concetto va dalla critica moderna respinto come errato, è necessario che noi ci studiamo di scoprire le ragioni dalle quali esso può esser nato. Perchè, in altri termini, a Giotto si potè applicare per così lungo tempo? Perchè i contemporanei subito videro in Giotto l'interprete del mondo naturale? Che cosa è questa naturalezza, questo realismo di Giotto?
Oggi nessuno più degli storici dell'arte chiamerebbe Giotto imitatore della natura : ma pittore dotato d'alto senso drammatico, e cioè di profonda e svolta umanità sì, Giotto viene pur sempre chiamato.
È forse in questo senso vivo dell'azione in rapporto al moto degli affetti; è in questo libero comporre le scene, in quest'aggrupparsi e disporsi dei personaggi fuori d'ogni convenzione, in questo loro gestire, e interrogarsi, e guardarsi e parlare e lamentarsi e morire nella forma più chiara semplice ed espressiva ciò che gli antichi dissero il realismo di Giotto?
Al di sopra degli astratti valori figurativi, anzi ad essi immedesimata, vive dunque l'umanità, il sentimento religioso di Giotto. Inoltre riconoscono gli storici che le sue figure sono tutte plasticità, volume. E non sono questi due valori figurativi della massima importanza per l'affermarsi di quel concetto di imitazione?
Le figure di Giotto parvero, a confronto di quelle dei pittori precedenti, concrete, tangibili; parvero occupare uno spazio percorribile, uno spazio vero. Non penseremo che Giotto fu pittore realistico al modo moderno, caravaggesco o courbettiano.
Ma in un certo senso, e nell'ordine delle pitture del suo tempo, questa di Giotto è arte tutta concretezza, verità di immagini e di sentimenti, piena di logica, e di approfondimenti psicologici e morali. Di qui la sua novità e la sua grandezza, che la fecero subito popolare.
Giotto dipinse un mondo di cose che si toccano, che hanno il loro peso, la loro consistenza terrena. Per questo verso egli si accosta agli ideali del mondo classico (trasse a Roma dal Cavallini questo gusto di plasticità) e prepara il Rinascimento.
Ingenua, e d'una semplificazione che diremmo, per convenzione, da primitivo, è la costruzione ch'egli fa della natura; ma intanto le sue architetture hanno sempre una giusta prospettiva e si potrebbero ridurre a precise planimetrie.
I suoi personaggi parlano tra loro, s'interrogano con lo sguardo (vedi i due frati nell'affresco assisano dell'assetato) aprono la bocca al lamento, gestiscono come se pensassero e sentissero.

 

Il miracolo della sorgente è la quattordicesima delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco della Basilica superiore di Assisi, attribuiti a Giotto.
 
Ecco il realismo di Giotto. Negargli queste virtù significa impoverirlo. Ciò non toglie che questo mondo abbia in sé qualche cosa di astratto, una concisione che fa simboHca quella realtà, un'architettura che la solleva al disopra dell'episodio e del contingente e la fa invece monumentale, solenne, sacra. Si pensi alla Fuga in Egitto, all'Annuncio a Sant'Anna (dov'è quella figura d'ancella che fila e sta in ascolto) al Sogno di Gioachino, al Compianto sul Cristo morto, degli affreschi di Padova; si pensi alla Predica di S. Francesco agli uccelli, al Miracolo della fonte, alla Morte del Signore da Celano tra gli affreschi di Assisi.
Nel 1300 Giotto è a Roma.
Giotto era nato probabilmente a Firenze nel 1266; aveva iniziato le pitture della Chiesa superiore di Assisi — ventotto riquadri con le storie di San Francesco — nel 1297.
L'opera di Assisi non è tutta di sua mano. Viceversa quella di Padova, iniziata con probabihtà nel 1303, è da attribuirglisi per intera. Nella Cappella padovana, detta degli Scrovegni o dell'Arena, il pittore dipinse un grande Giudizio finale; e poi le Storie di Maria e del Redentore, le allegorie dei vizi e delle virtù; e, sulla volta, in grandi medaglioni, Cristo benedicente, la Vergine e i Profeti. Questo ciclo pittorico di Padova è il capolavoro di Giotto. Ivi al risalto dei volumi si unisce in maniera bellissima l'accordo sapiente dei toni. I verdi, i morelloni, i
gialli d'ocra, i bianchi lattei, gli azzurri profondi fanno un'armonia delle più gaie e solenni.


Cappella degli Scrovegni a Padova

Tornato a Firenze, Giotto affresca in Santa Croce le Cappelle Bardi e Peruzzi.
Nella prima sono rappresentate Storie di San Francesco; nell'altra Storie del Battista e di S. Giovanni Evangelista. Queste pitture, malamente restaurate, denunciano un sempre più largo possesso dello spazio, nello stesso tempo che mostrano un sentimento decorativo che farebbe pensare a influssi senesi (vedi il Banchetto d'Erode). Estraneo così al gusto bizantino come a quello Gotico, Giotto è il geniale assertore d'una realtà che nelle forme volumetriche, tutte linee e chiaroscuro, si afferma come fatto essenzialmente umano, cui tutto il resto si subordina.


Banchetto di Erode, Cappella Peruzzi, Chiesa di Santa Croce.

Tutto in queste composizioni giottesche partecipa con la sua metrica e il suo ritmo (si guardi la montagna della Fuga in Egitto, la pendice del Calvario nel Compianto di Cristo) agli eroici e drammatici avvenimenti della vita umana. Cosi salda è la struttura spaziale armonica che le immagini sembrano impietrite, eternate nei loro sentimenti e gesti:​ ciascuna si direbbe divenga prototipo della passione che vuole esprimere, mentre partecipa della attività comune, rientra nell'architettura del racconto, in un sistema di equilibri e di valori spaziali che quel racconto fanno di estrema concisione e chiarezza, tutto note essenziali. Linea e volume Giotto; linea e colori Simone Martini senese.
Il quale prese dal gotico, ma al gotico e alla Francia restituì, quando ad Avignone, dove si recò a dipingere nel Palazzo papale, fondò una scuola pittorica che diffuse il suo stile. Natura musicale, delicata, diede alla linea una fluidità, una dolcezza che le immagini fanno estremamente poetiche e gentili. La tavola dell'Annunciazione della
Galleria degli Uffizi è forse l'opera sua più significativa, risplendente di oro, d'un ritmo curvilineo impareggiabile. Pittore veramente degno d'eseguire, come fece, il ritratto di Madonna Laura, ritratto ch'è andato perduto ma che si ebbe l'alto elogio del Petrarca.
 

L'Annunciazione di Simone Martini e Lippo Memmi, Galleria degli Uffizi
 
Famosa la sua Maestà del Palazzo pubblico di Siena, vera scena di Paradiso per la delicatezza dei colori e l'estasi nella quale pare immersa ogni figura; famosissimo il suo Guidoriccio da Fogliano, esaltazione dell'eroe sul fondo del paese da lui conquistato, personificazione fiabesca in una luce astratta di incantesimi. A Napoli Simone dipinse nel 131 7 una tavola rappresentante S. Ludovico che incorona il fratello Carlo d'Angiò, attualmente in quel Museo. Ad Assisi, nella chiesa inferiore, affrescò Storie di S. Martino, nelle quali si vede come l'artista non riesca a sfuggire, lui cosi elegante, prezioso, melodico e gotico, all'influenza di Giotto, e si avventuri in una ricerca di plasticità che non giova del tutto al suo sentimento pittorico.
Altri pittori importanti a Siena furono i Lorenzetti, Pietro ed Ambrogio. In essi la linea, retaggio gotico, piglia altro aspetto, non è più condotta a produrre effetti decorativi, ritmi musicali, ma a rilevare e caratterizzare le forme. Racchiuse da questa linea, vivide di colore, secondo la tradizione senese, le immagini di Pietro ed Ambrogio Lorenzetti esprimono una umanità raffinata e profonda, intensamente patetica. Di Pietro è da ricordare il Polittico della Pieve di Arezzo (1320), e le scene della chiesa inferiore di Assisi con la Storia di Gesù, in talune delle quali vibra un vivo sentimento drammatico sostenuto principalmente dal ritmo compositivo delle linee.
Ancora più grandiosa è la visione di Ambrogio. Anche su lui è da notarsi l'influsso di Giovanni Pisano. Si è pensato anche a Giotto (Madonna col bambino, a Vico l'Abate presso Firenze), ma la plasticità che il Fiorentino otteneva col chiaroscuro è qui pur sempre derivata dalla gradazione del colore e dalla funzionalità della linea. Celeberrima la sua Madonna del latte nel Seminario di Siena, intensa di vita psicologica e stupenda di armonia lineare; egualmente famosa l'estatica Santa Dorotea del Polittico a lei intitolato della Pinacoteca di Siena, rappresentata in atto e veste di Flora offerente alla Vergine. Dei suoi numerosi affreschi, rovinati la maggior parte, il  più importante è quello del Palazzo pubblico senese. L'allegoria del buon Governo, e l'altro degli Effetti del buon governo in città e in campagna, dov'è ungusto del paesaggio che rimarrà caratteristico della scuola senese.
Siamo quasi a mezzo il Trecento. Giotto aveva creato una scuola che nelle personalità di un Taddeo Gaddi, di un Bernardino Daddi sentì anche il fa​scino dell'arte senese. Maso di Banco ebbe testa più quadra (Miracolo di S. Silvestro nella Basilica di S. Croce a Firenze) e seppe rendere con maestria un suo acuto sentimento dello spazio.

 

La cappella Bardi di Vernio è una della cappelle del transetto di Santa Croce a Firenze.

Altri pittori, sempre avanzando nel secolo, che in Toscana e fuori ebbero qualche merito e nome, furono l'Anonimo del Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa; Andrea Orcagna, Nardo di Cione, seneseggiante, Andrea da Firenze che affrescò il Cappellone degli Spagnoli in S. Maria Novella, Altichiero ed Avanzo padovani, che mostrarono, nelle pitture eseguite nella Chiesa del Santo, come avessero inteso la lezione di Giotto.

Tratto da 
Nazareno Padellaro, Enciclopedia dei maestri, Milano, Anonima Edizioni Viola, 1942

 

Arte


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