Peste Nera nel 1348 a Firenze
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da www.archiviodistatopiacenza.beniculturali.it
Preceduta da tre segni significativi e premonitori (cometa, grandine, cero), la peste arriva a Firenze nel 1348, per rimanervi fino al settembre del detto anno. L’epidemia si diffonde rapidamente, provocando la morte nei 3/5 della popolazione fiorentina. Le conseguenze sociali che ne derivano sono inumane e crudeli: alcuni, presi dal panico e dalla paura, evitano i malati, altri li aiutano senza timo- re in cerca di una cura. Inoltre, l’uomo cerca un capo espiatorio: una punizione divina, la congiun- zione di tre pianeti, un fuoco che ha sparso l’epidemia. La pestilenza colpisce uomini di ogni condizione e ceto sociale, senza alcuna distinzione; i più ricchi però, morendo, lasciano le loro abitazioni vuote e incustodite, spingendo i sopravvissuti ad im- padronirsene insieme a tutte le ricchezze in esse con- tenute. La peste porta quindi grande danno alla città di Firenze.
Nella nostra città [la pestilenza] cominciò generale all’entrare del mese d’aprile gli anni Domini 1348, e durò fino al cominciamento del mese di settembre del detto anno. Morì, tra nella città, contado e distretto di Firenze, d’ogni sesso e di catena età de’ cinque i tre e più. E nel generale per tutto il mondo mancò la generazione umana per somigliante numero e modo. Gli uomini si diedero alla più sconcia e disonesta vita. (Giovanni e Matteo Villani, Cronica, 1348)
Che più si può dire, […] se non che tanta e tal fu la crudeltà del Cielo, e forse in parte quella degli uomini, che in fra ‘l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne’ lor bisogni per la paura ch’aveano i sani, oltre a cento milia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti? che forse, anzi l’accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti.
(Giovanni Boccaccio, Decameron, I, Introduzione, 1348-1353)
La peste e i medici
La peste del 1348 fu particolarmente catastrofica e la città di Firenze vide ridursi la popolazione a un terzo; si presentò come una malattia sconosciuta, del tutto nuova e per questo l’adottare rimedi e contromisure risultò assai difficile. Peraltro essi non garantivano l’immunità del morbo.
Il consiglio generale era quello di difendersi dal freddo e mettersi al riparo dall’umido, ma anche l’alimentazione avrebbe giocato la sua parte: i cibi consigliati per una pronta guarigione variavano da persona a persona e secondo la stagione; anche l’orario di assunzione determinava l’efficacia o meno della cura. Da evitare frutta, pesce e latticini, era inoltre consigliato profumare la casa e gli abiti, masticare erbe, bagnarsi con aceto, utilizzare spezie, digiunare, conversare l’uno lontano dall’altro. Una volta purificato così il corpo, si doveva lasciare la città all’inizio della primavera allontanandosi anche da amici e parenti affetti da peste, evitando di cadere nella malinconia.
Afumiga la casa spesso con buoni odori. Similmente le veste. Tieni al naso et in bocca (dove più mporta) della tiriaca, l’altre volte scorza di cedro o zettovaria, o incenso [...]. Spesso ti lava la bocca, el viso et mani con aceto, et qualche volta con vino potente.
Fuggi adunque e pesci quanto puoi (intra i quali nuociono meno i piccoli di fiume chiaro, petroso et corrente, fricti in olio con salina, di poi messi in aceto con sale et un poco di pepe o cennamo). Ancora schifa el lacte et ricotte, et se l’usi sia pel primo cibo, et poco et con zucchero. Fuggi le fructe,
excepto le mandorle, amarene. Puoi usare più sicuramente le fructe et erbe secche et agre, ovvero alquanto amarette.
(M.Ficino, Consilio contro pestilenza, a c. di E. Musacchio, Cappelli, Bologna 1983)
E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare. [...].
E erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori di morte o d’infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimovano.
(Giovanni Boccaccio, Decameron, I , introd. )
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