La scuola Toscana
Tratto da Achille Bertarelli, Il biglietto di visita italiano, contributo alla storia del costume e dell'incisione nel secolo XVIII, Bergamo, Istituto italiano d'arti grafiche, 1911
"In Italia, spetta a Firenze l’onore di essere stata la prima città che si sia rivolta ad ornare i libri con figure in rame (1). All’aprirsi del Cinquecento, quando il commercio librario s’era raggruppato intorno alle Scale di Badia, l’arte italiana toscana profondeva i suoi tesori non solo nei volumi di carattere letterario, ma anche in quei popolari libretti che allora si vendevano ad un soldo, mentr’oggi si custodiscono come cimeli preziosi in poche e privilegiate biblioteche.
Nel secolo seguente si dedicarono alla illustrazione dei libro ed alla riproduzione delle locali costumanze anche maestri reputatissimi del bulino: come dimostrano i nomi di Remigio Cantagallina (1570-1624), Antonio Tempesta (ì 555-1630), Jacopo Callot (1593-1635), Giulio Parigi (f 1635), Stefano della Bella (1610-1644), l’opera dei quali non ricorda soltanto gli ingressi solenni dei sovrani o le fastose cerimonie della corte medicea, ma si allarga anche a celebrare avvenimenti e fatti di minore rilievo. E qui potremmo ricordare i frontespizi dei libri e le tesi che offrono campo opportuno a svolgere grandiose scene allegoriche vuoi d’invenzione vuoi tolte da quadri di celebrati pittori; le ventole istoriate da indovinelli e rebus, dove l’artista s’è piaciuto occultar sentenze allusive all’Amore o alla Fortuna, ovvero commemorar liete feste cittadine, come fu, ad esempio, quella celebrata sull’Arno nel 1619.
E sempre fra queste stampe volanti noi dovremo ricercare i ricordi della tradizionale Fiera dell’Impruneta, le scene della vita errabonda degli zingari, i tipi più curiosi dei pezzenti, le figure delle maschere che allietavano il teatro oppure le carte da giuoco immaginate con nuove forme per insegnare in modo piacevole la mitologia, la storia e la geografia.
Sul finire del Sei ed all’inizio del Settecento la vita artistica del libro va scemando, malgrado le cure assidue impiegate dal granduca Cosimo III (1670-1723) per ricondurre la la Tipografia Granducale, ormai ridotta a stampare solo i libri "in rosso e nero" (come allora chiamavansi i breviari), alle magnifiche tradizioni del passato, quando la nascente istituzione, sotto gli auspici del Torrentino (2), aveva dato sì belle prove di sè.
Gli sforzi del sovrano non furono coronati da lieto successo; Cosimo tuttavia nel promuovere l’amore dei buoni libri, la perizia e l’emulazione tipografica (3), preparò la strada a quel miglioramento che doveva verificarsi più tardi.
Nella prima metà del secolo XVIII gli artisti che si dedicavano all’ intaglio erano poco numerosi a Firenze ed Ignazio Enrico Hugford, discepolo e biografo di Domenico Gabbiani, pubblicando nel 1762 in memoria dell’opera pittorica del maestro uno dei più bei libri illustrati di quel periodo, scriveva che il volume veniva alla luce solo allora perchè nel 1736, quando il Gabbiani passò di questa vita, la città di Firenze era ”quasi affatto sprovvista di buoni Professori di intaglio in rame" (4) Infatti il rifiorimento artistico fiorentino si inizia verso la metà del secolo per raggiungere il suo maggior splendore nell’ultimo ventennio di esso (fig. n. 1, 2).
Cosimo Mogalli cessava di lavorare e di vivere nel 1731, Domenico Campiglia nel 1736; circa vent’anni dopo sparivano Carlo Gregori (1759), Antonio Pazzi (1766), Giuseppe Zocchi (1767), mentre Carlo Faucci, Ferdinando Gregori, G. B. Cipriani, Francesco Barilozzi, Andrea Scacciati, Domenico Terreni, G. B. Betti, Sante Pacini, precursori di molti altri valenti, cominciavano a risollevare l’arte dell’incisione in Toscana alla dignità già altre volte raggiunta (fig. n. 3, 4).
E noto come, spentasi la casa de’ Medici, la Toscana venisse poi dal 1765 al 1791 sotto lo scettro di Pietro Leopoldo II, più tardi imperatore d’Austria.
Il nuovo principe favorì in modo speciale le arti e le lettere, come dimostra il fatto tra altri che, lui auspice, si pubblicò a Livorno la terza edizione della Grande Enciclopedia Francese. Ei volle poi che gli incisori Ferdinando Gregori e Vincenzo Vangelisti si portassero a Parigi per perfezionarsi alla scuola del Wille, e fece pratiche presso Francesco Bartolozzi affinchè, lasciata l’Inghilterra, si ristabilisse in patria allo scopo di rinvigorire e coordinare i vari elementi che componevano allora l’incisione toscana.
Durante il regno di Leopoldo appunto si introdussero due nuovi procedimenti tecnici nell’arte dell’incisione, ma ad essi accenneremo solo brevemente, perchè, data la loro applicazione lunga e costosa, vennero raramente usati nelle stampe di occasione. Verso il 1760 Andrea Scacciati pubblicava, forse per il primo in Italia, delle incisioni che imitavano i disegni all’acquerello secondo il sistema insegnatogli dal tedesco Schweickart, allora residente a Firenze (fig. n. 5) ; e poco più tardi il Lasinio cominciava a dar in luce le stampe a colori, di cui aveva appreso il segreto da Odoardo, fratello di Luigi D’Agoty che come abbiamo già notato fu il primo ad applicar tale sistema in Milano verso il 1780.
Gli incisori or ora ricordati ed altri ancora fioriti alquanto più tardi, eseguirono lavori nei quali la correttezza del taglio non si disgiunge quasi mai dalla novità e dalla genialità dell’invenzione. Sembra quasi che il lontano ricordo del magistero raggiunto dagli antichi maestri, si unisca ad un soffio di vita moderna per ispirare questi artefici valorosi insieme e modesti. Non ci tornerebbe difficile addurre in appoggio del nostro asserto copiosi documenti figurati, fra i tanti noi presceglieremo taluni frontespizi per quaderni di musica, perchè queste stampe destinate a correre per le mani di tutti, possono a nostro avviso meglio estrinsecare il gusto predominante della città ove nacquero, tanto più ove si confrontino con quelli dati fuori contemporaneamente a Bologna da Luigi Guidotti, e Francesco Zappi a Venezia da Antonio Zatta, Innocente Alessandri e Pietro Scattaglia, a Roma da Giuseppe Marina e G. B. Concetti, infine, a Napoli da Luigi Marescalchi (fig. n. 5, 6).
Dal confronto appare evidente che il tipo a fregi è raramente usato nel libro di musica toscano. Esso vi cede il posto a scene animate, a vignette comiche oppure a motivi musicali. Anche in quest’ultimo caso l’artista vuol interpretare con intendimenti del tutto nuovi le rigide forme simboliche, sicché alle maschere del teatro greco, ai pastorelli d’Arcadia od ai cori celesti sostituisce spesso allegri sciami di puttini che cogli strumenti musicali alla mano ringiovaniscono il vecchio motivo del frontespizio illustrato.
Il desiderio di avvicinarsi ad un tipo di rappresentazione meglio rispondente ai costumi del tempo, traspare spesso nella iconografia toscana; quantunque non in maniera abbastanza costante da permettere di additar in esso il carattere peculiare di una vera scuola.
Così a fianco del Gregori, le cui stampe decorative (fig. n. 183) risentono ancora dell’ampollosa concezione secentesca ingentilita in parte dagli influssi di un soggiorno in Francia, fiorisce la scuola di Raffaello Morghen, che si ispira alle forme classiche e l’altra la quale riconosce il proprio capo in Carlo Lasinio, l’incisore che, a nostro parere, seppe meglio di ogni altro adattarsi a quegli intendimenti d’arte così in contrasto tra loro che imperarono nel periodo decorrente dal 1780 al 1840.
Al Lasinio, intagliatore trevigiano venuto a Firenze nel 1782 e mortovi nel 1838, può veramente attribuirsi quel rifiorire dell’incisione che si avverte in Toscana durante l’ultimo trentennio del secolo XVIII. Eppure chi conosce il suo nome oggi?
Vanamente il rievocator diligente lo ricerca nelle pagine dei dizionari biografici; ed il solo De Boni lo menziona, ma per celebrarne le pitture a fresco del Campo Santo di Pisa e delle Gallerie Fiorentine, come se la fama di uno tra i più fecondi tra gli incisori dell’età sua non fosse oggi affidata anche ad opere di altra natura e d’un interesse forse superiore (5).
Dotato di una sorprendente rapidità d’esecuzione, mentre incideva i busti dei Cesari romani, conservati nella Galleria di Firenze (12 tavole), oppure i graffiti che adornano le facciate di palazzi fiorentini (42 tavole), il Lasinio sapeva, assumendo quasi un altro temperamento artistico, tradurre sulla carta i Ritratti delle persone facete che servono a divertire il Pubblico Fiorentino (12 tavole), ovvero Lo Sposalizio di Marfisa (10 tavole), la raccolta dei proverbi (80 tavole), quella dei Giuochi in 23 tavole (fig. 7) sopra i disegni fornitigli da Gaetano Piattoli e che coloriti poi a pennello portavano nei salotti del tempo una nota gioconda e festosa.
Quasi ciò non bastasse, egli incideva pure la serie bellissima dei Costumi del contado Toscano (60 tavole), quella dei ritratti d’artisti (324 tavole), infine dava mano all’ illustrazione del periodo napoleonico (circa 100 tavole). Tacciamo di altri lavori di minore entità (fig. 8)!
L’opera multiforme uscita dal bulino creatore di Carlo Lasinio e dei suoi numerosi scolari, presenta parecchi punti di contatto, dal punto di vista dell’ispirazione, con quella eseguita nell’ugual periodo di tempo da artisti stranieri. Il nuovo indirizzo aveva potuto svolgersi a Firenze sopratutto per il motivo che gli incisori vissuti fra il 1760 ed il 1800, non si sentivano legati in veruna guisa a scuole preesistenti. Si aggiunga anche che ad agevolare il distacco dalle formule tradizionali giovarono non poco le condizioni politiche di Firenze dove un governo liberale e saggio dava modo di fiorire anche alle idee più ardite in fatto di politica, di scienza e di filosofia.
L’adattamento ai nuovi tempi avveniva proprio sullo scorcio del secolo, quando tutte le calcografie dell’alta Italia stavano per scomparire, uccise dai disagi delle guerre e dalle modificazioni territoriali che danneggiavano gravemente il loro commercio, avvezzo da secoli a svolgersi nell’angusta cerchia di una provincia ben determinata. Le divisioni politiche, che in altri tempi avevano dato vita alle scuole locali, impedirono a questo momento che le nostre fabbriche riuscissero a costituirsi in un saldo organismo, com’era seguito di quelle di Augusta, d’Amsterdam, di Chartres o di Rouen, nelle quali tutto aveva finito per restringersi il lavoro dei paesi tedeschi, olandesi e francesi. Le calcografie italiane invece, ai primi accenni di una guerra che promovendo la caduta di tutte le barriere fra Stato e Stato, doveva necessariamente provocare l'unificazione del gusto artistico, si trovarono impotenti a seguire il nuovo impulso; il loro materiale rispondeva difatti solo ai bisogni, agli usi, ai costumi nella regione cui appartenevano
Da quanto abbiamo detto riesce facile comprendere come la Scuola Toscana, precedendo le altre città nel creare un tipo d’incisione più consono alle nuove esigenze della vita italiana, potesse sugli albori dell’Ottocento, debellare ogni altra congenere istituzione provinciale e divenire così il principale centro italiano dell’iconografia napoleonica, che è quanto dire di quasi tutta la produzione illustrata sorta nella penisola fra il 1796 ed il 1814.
Le truppe francesi guidate da Bonaparte avevano a mala pena varcate le Alpi, e già in Firenze G. B. Wicar, francese di nascita ma fiorentino d'elezione, incideva all’acquafòrte la scena dell’epico giuramento pronunciato sul ridotto del Monte Legino (10 aprile 1796) dal capo-brigata Rampon, creando così il primo lavoro che cronologicamente illustri la memoranda invasione.
Le fabbriche di Bassano e di Venezia tentarono da principio di seguire l’esempio che lor davan gli incisori toscani ma dovettero tosto rinunziare all’impresa. I Remondini difatti, ligi all’Austria, non vollero cooperare in nessun modo alla glorificazione dell’opera napoleonica; in quanto agli incisori veneziani essi furono ridotti all’inerzia dai rivolgimenti politici, e la maggior parte emigrò in altri paesi.
Neppure Milano, divenuta capitale del nuovo regno, seppe illustrare come Firenze gli avvenimenti cittadini ed invano oggi si cercherebbe anche una sola stampa milanese che ricordi l’incoronazione di Napoleone avvenuta nel nostro Duomo.
Così mentre in tutte le città dell’Alta Italia l’illustrazione del periodo napoleonico consta unicamente di ritratti (per tacere di poche stampe che non oltrepassano il 1799), nella Toscana invece tutti gli avvenimenti politici man mano che si svolgono, trovano artefici pronti a fermarli nell’incisione. Così la rivolta di Val di Chiana darà occasione alla calcografia di Giuseppe Bardi di pubblicare una serie d’incisioni lavorate da Pietro Ermini e da Giuseppe Cecchi; l’assedio di Mantova sarà narrato in tutte le sue fasi grazie ai ritratti ed alle vedute dei Lasinio. E alquanto più tardi, mentre nel settentrione della penisola la reazione del 1799 si afferma con volgari caricature inneggianti alla restaurazione dell’autorità della Chiesa e de’ governi dispotici, il ritorno del principe spodestato a Firenze offre occasione a molte stampe satiriche non prive di finezza, ispirate all’amore della dinastia lorenese o alla difesa degli istituti e delle costumanze regionali.
Ma gli avvenimenti incalzavano. Sulle rovine del governo lorenese appena restaurato, sorgeva il regno d’Etruria; Firenze da capitale d’un granducato diveniva il capoluogo d’un dipartimento francese. Ed ecco in corrispondenza ai mutati destini, farsi più copiosa l’illustrazione dell’epopea napoleonica e l’opera del Bartolozzi e del Morghen apparir completata dalle innumerevoli stampe che Giuseppe Angeli, Luigi Volpini, Giacomo Aliprandi, Giuseppe Festi, Carlo Lasinio (Fig. 9) ed il figlio di costui Giovanni Paolo, Pompeo Lapi, il Rosselli e Gaetano Vascellini annunciavano alla pubblica brama nelle calcografìe di Lorenzo Bardi, Niccolò Pagni e della Società Calcografica.
La creazione artistica continuò così in Toscana, febbrile, intensissima, finché l’astro napoleonico scintillò sull’orizzonte.
Essa si spense quindi colle stampe che salutavano il ritorno di Ferdinando III di Lorena, disegnate ed incise da Giuseppe Castagnoli e da Giuseppe Canacci e coi lavori che Antonio Verico e Giambattista Cecchi eseguirono a Roma per conto della corte Pontifìcia, illustrando i fasti ahimè! poco gloriosi di due Pii, il VI ed il VII!
Questi artisti che avevano fermato sul rame le visioni tumultuose e possenti della leggenda napoleonica, incisero pure molte vignette (fìg.9) e le carte da visita toscane e le illustrazioni che ornarono i libri editi in quel torno di tempo dai Bardi a Firenze, dal Pazzini a Siena e dai Masi a Livorno, volumi quasi tutti sconosciuti, perchè la moda, capricciosa dea, impone purtroppo che si ricerchino unicamente quelli illustrati dagli stessi artisti, qualche anno avanti, quelli cioè pubblicati a Parigi dal Molini, dal Prault o dalla vedova Herissant!"
(1) II Monte Santo di Dio fu stampato in Firenze nel 1477 da Nicolò della Magna con incisioni in rame, alcune delle quali eseguite da Baccio Baldini sopra i disegni di Sandro Botticelli.
(2) Lorenzo Torrentino, nato Laurens van den Bleeck, latinizzato come Laurentius Torrentinus (Paesi Bassi, 1499 – Firenze, 2 febbraio 1563), è stato un tipografo e umanista olandese naturalizzato italiano. Ebbe tra i suoi committenti il duca di Firenze Cosimo I de' Medici.
(3) Cfr. Landi Salvatore, La Stamperia Ideale di Firenze e le sue vicende. Firenze, Arte della Stampa, 1881.​
(4) Hugford Ignazio Enrico. Vita di Antonio Domenico Gabbiani pittor fiorentino. Firenze, Stamperia Mouckiana, 1762, parte II, pag. 7.
(5) Cenni biografici pubblicati intorno a Carlo Lasinio nel Nuovo Giornale dei Letterati (Pisa, 1838, N. 100) e nell'opuscolo Per le felicissime nozze Zava-Giacomelli (Treviso, Andreola, 1839) non forniscono che scarse indicazioni suil’opera dell’incisore.
L'opera è ora agli Uffizi di Firenze. Commissionata da Nofri Del Brutto Buonamici, era originariamente nella chiesa di Sant'Ambrogio.
Il volto enigmatico di un giovane talento sospeso tra arte e musica
La tavola venne dipinta, secondo la descrizione di Vasari, per il convento di Annalena a Firenze ed è conservata nel museo dal 1919.
"La Madonna del Parto" di Piero della Francesca simboleggia la maternità e divinità con un ricco simbolismo del Rinascimento italiano.