Iacopo Piccardi chi era costui?

Iacopo Piccardi chi era costui?
Di Paolo Piccardi
 

Piccardi Iacopo di Zanobi fu uno scultore e architetto attivo nel ‘500, ma su di lui non troviamo informazioni né nelle enciclopedie né nei dizionari degli artisti. Attraverso documenti di archivio possiamo però rintracciare alcune sue opere, che sono giunte fino a noi. Le prime notizie ce la fornisce Filippo Baldinucci nelle sue “Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua” nei capitoli che riguardano le biografie del Giambologna e di Pietro Tacca.

Giambologna era uno scultore, che si era guadagnato fama internazionale per la sua bravura nel modellare e nel fondere statue in bronzo. Indispettito dalle malevole critiche di colleghi invidiosi, che lo giudicavano incapace di scolpire statue in marmo, realizzò il Ratto delle sabine, che ancora oggi si può ammirare sotto la Loggia dei Lanzi. Per dimostrargli il proprio apprezzamento, il granduca gli concesse una casa in Borgo Pinti, al numero 26, dove il Giambologna attrezzò il proprio laboratorio e ospitò allievi e collaboratori.

Nel trattare la biografia del Giambologna, il Baldinucci scrive di aver letto il diario del Provveditore alle fortezze medicee Giovanbattista Cresci. Quest’ultimo si trovava presente nella casa del Giambologna nel 1594, quando Ferdinando I dei Medici fece una visita inattesa, per osservare come procedevano i lavori del monumento equestre destinato al re di Francia. Durante tale visita, il granduca chiese al Giambologna di realizzare una statua in marmo raffigurante Ercole e il Centauro. Approvato il progetto, seduta stante venne deciso di spedire Iacopo Piccardi a Carrara per scegliere il marmo occorrente. Cosa che il Piccardi fece, spendendo 200 ducati per il marmo alto cinque braccia (tre metri) condotto alla marina, 50 per farlo sbozzare e 110 per condurlo a Firenze. Il gruppo marmoreo venne collocato al canto dei Carnesecchi, all’angolo fra via Rondinelli e via Panzani.

Non scrive altro sul nostro Iacopo e da questa notizia si potrebbe arguire che Iacopo fosse semplicemente un impiegato, incaricato di sbrigare le faccende amministrative. Ma nel descrivere la biografia di Pietro Tacca, il Baldinucci aggiunge ulteriori notizie:
Un certo Iacopo Piccardi maestro di scarpello da Rovezzano, amicissimo del celebre scultore Giovanni Bologna da Douai, in occasione di portarsi a Carrara a provvedere marmi, alloggiava sempre in casa di Jacopo Tacca, un ricco uomo, padre di Pietro. Il giovane figlio restò affascinato dai discorsi del Piccardi sulla bellezza delle opere di scultura del Giambologna e volle sperimentare la lavorazione del marmo, prendendo a frequentare botteghe di marmisti carrarini per impratichirsi nell'arte, abbandonando gli studi delle lettere, ai quali lo aveva avviato il padre. Ben presto fu chiaro che il fanciullo desiderava andare a Firenze per intraprendere la carriera di scultore. Il padre accondiscese, anche perché il Piccardi lo rassicurò che lo avrebbe ospitato in casa sua e che lo avrebbe messo a bottega dal Giambologna  suo grande amico”.
 

Iacopo Saccardi
 

 In effetti il Tacca visse molti anni in casa del Piccardi, recandosi tutti i giorni presso la bottega del Giambologna, il quale , dopo un certo tempo, decise di ospitarlo in casa propria, così come faceva con gli altri collaboratori, dei quali il Baldinucci elenca i nomi dei più importanti: in primo luogo il Francavilla, fiammingo e allievo prediletto, Anzireccelle tedesco, Adriano fiammingo, Antonio Susini, Francesco e Guasparri della Bella e Francesco Piccardi, figlio del nostro Iacopo.

E’ bene premettere che il Baldinucci visse in epoca posteriore a quella in cui visse il nostro, quindi riporta fatti e circostanze appresi di seconda mano, comunque questo brano ci fornisce alcune considerazioni interessanti: in primo luogo che Iacopo era di Rovezzano, quindi lo possiamo assegnare ai Piccardi di Bagno a Ripoli (che si erano insediati da secoli nel territorio di Remole). Il nome Iacopo ricorre frequentemente in quel ramo della famiglia.
In secondo luogo lo definisce “amicissimo” e non collaboratore o allievo del Giambologna, del quale forse era anche più anziano, visto che il figlio Francesco lavorava già per lo scultore fiammingo. Si può quindi supporre che Iacopo fosse uno scultore indipendente, che affiancasse saltuariamente il Giambologna, che evidentemente lo stimava, ma che ricevesse anche incarichi in proprio, come verrà dimostrato in seguito.
Apprendiamo inoltre che Iacopo aveva un figlio di nome Francesco, che risulta già morto nel 1601, quando il Giambologna, ormai molto anziano, decise di nominare il suo successore. Baldinucci scrive infatti che la scelta cadde sul Tacca, essendo il Francavilla partito per la corte di Francia e Francesco Piccardi deceduto.
Probabilmente Iacopo ebbe un altro figlio, di nome Benedetto, che troviamo in un curioso libretto, pubblicato nel 1626 da un ciarlatano bolognese, Pier Francesco Giraldini, che intendeva magnificare le proprietà miracolose del suo preparato a base di “Pietra Belzuar”, capace di debellare tutti i mali, sia quelli freddi che quelli caldi, consentendo l’eliminazione dei malefici umori che salendo per le arterie giungono fino al cuore e al cervello. Dopo un’ampollosa dissertazione, il Giraldini pubblica le testimonianze delle persone guarite, fra le quali possiamo leggere la seguente:
Io Bastiano di Giovanni Puccini Fiorentino, fo fede per verità, come havendo io una Febbre di reprensione per sei giorni continui, havendo adoperato la suddetta polvere, e acqua in quattro giorni mi son trovato sanato; e io Benedetto di Iacopo Piccardi ho fatto la presente di mia mano propria a’ preghi del sudetto Bastiano, perché disse non sapere scrivere

Per chi fosse curioso di provare i benefici di quella miracolosa polvere Balzuar, sappia che è sufficiente polverizzare la vena bianca che attraversa le pietre calcaree, quali l’alberese o il galestro e ingerirla con poca acqua. Male non fa ma la guarigione non è assicurata. 
 


 

Un primo esempio di collaborazione di Iacopo Piccardi con il Giambologna risale al 1587 per la realizzazione del monumento equestre a Cosimo I, che venne collocato in piazza della Signoria nel 1594. Le parti bronzee (statua e cartigli) vennero fatti dal Giambologna e il basamento da Iacopo Piccardi. Anche su questo argomento il Baldinucci riporta notizie lette nel diario di Giovanni di Marco d'Agnolo di Marco di Palla Neri di Castelfranco di Sopra (della stessa famiglia di Filippo Neri) e riferisce un curioso aneddoto:
Giambologna, per qualche numero di giorni, volle che l'assito che lo circondava restasse in piedi in altezza quanto passasse di gran lunga la misura d'un uomo e stavasene in alcune ore cola' serrato, e mediante verti piccoli fori, vedendo senz'esser veduto, ascoltava quanto dalla gran gente concorsavi veniva detto dell'opera sua. Vi fu un contadino, che dopo aver osservato ben bene il cavallo, proruppe in queste parole: egli ha fatto un bel cavallo, ma non gli ha fatto tutto quello ch'egli ha da avere; con che mosse curiosità in chi gli stava vicino di sentirne il perché; ed allora soggiunse il villano, in modo che fu sentito da Giambologna: egli non gli ha fatto i calli delle gambe. Or qui è da sapersi, che questi sono alcuni calli di forma ovale, che in quasi tutti questi animali si veggono nell'interiori parti delle gambe dinanzi, poco sopra il ginocchio, causati dal fatto che il feto del cavallo, nel ventre materno, sta sempre con le gambe che si toccano, impedendo il formarsi della cotica e del pelo. Giambologna, dunque, sentita che ebbe tale censura, uscì da quel volontario suo carcere, ed andossene a informare che cosa fossero questi calli e, sentitolo, fatta di nuovo coprire la statua con quei modi, che alla sua gran pratica del metallo son facilissimi, o tagliando o ricommettendo metallo ove bisognava, o affondando, fece rilevare la pelle, e restar l'incavo quanto occorse per far comparire i calli, che paiono naturali e venuti col getto del cavallo medesimo.

Queste erano le notizie relative a Iacopo raccolte dal Baldinucci in epoca successiva ai loro accadimenti, ma se vogliamo conoscere meglio le sue opere, dobbiamo rivolgerci a documenti di archivio della stessa epoca in cui visse. Per nostra fortuna la cattedrale di San Martino a Lucca conserva le carte relative ai lavori di ammodernamento, che vennero decisi per ottemperare alle disposizioni dettate dal Concilio di Trento, che prescrivevano l’installazione di nuovi altari lungo le pareti laterali. Vennero vagliate varie proposte e al Giambologna venne assegnato l’altare detto della Libertà, che realizzò con la collaborazione del Piccardi. Venne fatto un bando anche per le altre cappelle e risultò vincitore il solo Iacopo, il cui progetto superò tutti gli altri, compreso quello presentato da Giorgio Vasari. Le sue cappelle sono ancora al loro posto.
 


 

Un’altra fonte interessante per la ricostruzione delle opere di Iacopo è l’archivio della famiglia Salviati, conservato in larga parte presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e in parte minore in altri archivi di Roma e di Firenze. In uno dei manoscritti viene descritta minuziosamente la realizzazione della cappella di S. Antonino in San Marco. S. Antonino Pierozzi era stato canonizzato da Clemente VII (Giulio di Giuliano dei Medici) nel 1523 e l’edificazione della cappella destinata a conservare il suo corpo si inserì nel processo di totale rinnovamento dell’interno della chiesa, sempre in ottemperanza delle disposizioni conciliari. Le spese vennero interamente sostenute da Averardo e Antonio Salviati, secondo le disposizioni testamentarie del padre, fervente devoto del santo. Per la sua realizzazione venne prescelto Giambologna, che nel 1579 presentò il suo progetto, nel quale erano previste sei statue sormontate da altrettanti bassorilievi in bronzo, il tutto di mano del maestro stesso. Per le parti architettoniche, la cui policromia ha reso celebre questa cappella, Ewa Karwacka Codini, che ha esplorato l’archivio Salviati, attribuisce un preminente ruolo a Iacopo, che non solo scelse personalmente i marmi da impiegare, prodigandosi in più viaggi per un tempo superiore a un anno, ma fu il responsabile dell’intera realizzazione, sovrintendendo al lavoro di ben 75 artigiani. 
 

Tutta questa sua attività è ben documentata nel registro tenuto dai Salviati, i quali dimostrarono di apprezzare il lavoro svolto, tanto da affidare, nel 1589, al solo Piccardi la ristrutturazione della loro dimora pisana, che nel tempo aveva accorpato altri edifici adiacenti. A proposito di questo lavoro, Ewa Karwacka Codini così scrive: “Il Piccardi rimoderna la facciata principale applicando alla sua opera un linguaggio stilistico vicino a quello di Bartolomeo Ammannati riuscendo a conferire al prospetto un effetto di notevole plasticità che si deve al volume delle cornici e dei timpani in pietra Golfolina nelle finestre del piano terreno e del piano nobile, e all’applicazione del bugnato al portale d’ingresso e sulle cantonate. Al centro del portale fu scolpito lo stemma con l’arme dei Salviati, a tre bande doppio merlate, e sull’architrave dello stesso portone venne scolpita la scritta Averardus et Antonius Philippi Salviati fecerunt, entrambi ancora presenti sulla facciata. L’aspetto attuale di Palazzo Salviati non si discosta sostanzialmente da quello elaborato da Iacopo Piccardi, se si esclude l’attuale presenza delle persiane esterne al piano ammezzato, al piano nobile e al secondo piano. Possiamo ammirare il Palazzo Salviati al 77 di via San Martino.

Nel 1593 I Salviati decisero di ristrutturare il palazzo di via Ricasoli a Firenze e anche questa volta affidano il compito a Iacopo Piccardi, che disegnò la facciata come la possiamo vedere ancora oggi al n° 26, dove si trova la biblioteca della giunta regionale.

Per ammirare un altro lavoro conosciuto di Iacopo Piccardi occorre visitare la Certosa di Firenze, dove il ciborio esagonale, a forma di tempietto, circondato da colonnine e sormontato da una cupola è l’unico elemento rimasto dell’altar maggiore originale, terminato nel 1594. Tutte le parti che circondano il ciborio risalgono al 1773, quando andarono a sostituire l’altare cinquecentesco del Giambologna.
I documenti finora rintracciati ci mostrano un bravo “intagliatore di pietra”. In un periodo nel quale in breve tempo si provvide a tappezzare le pareti delle chiese con altari laterali, magari coprendo affreschi di pittori del calibro di Masaccio, Andrea del Castagno e tanti altri, vennero certamente apprezzate le qualità di un bravo artigiano, in grado di presentare progetti collaudati e consoni ai gusti dei richiedenti.


Testo e foto di Paolo Piccardi
 


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