Tra la fine del secolo XIV e l'inizio del XIV

Tra il XIV e il XV secolo


Tratto da I.B. Supino, Fra Filippo Lippi, Firenze, Fratelli Alinari Editore, 1902

Tra la fine del secolo XIV e il principio del successivo una notevole mutazione si manifesta nel sentimento e nello spirito del popolo fiorentino. Certo questa mutazione si era venuta preparando da lungo tempo: ma propriamente nei primi anni dopo la conquista di Pisa (9 ottobre 1406) ne vediamo palesi gli effetti: si direbbe che nel popolo, dopo le lunghe lotte intestine, corra una vigoria nuova di giovinezza, un'insolita energia, e che un'allegra spensieratezza domini gli animi dei cittadini. Il senso del bello si ringagliardisce, si affina, si divulga, aiutato da chi aveva interesse ad accaparrarsi il favore dei più con il fasto esteriore dei costumi.
Nella città, già bella e grande, le piazze e le vie andavano acquistando ogni giorno ornamenti nuovi di chiese, di case e di palazzi; e i palazzi, non più severamente turriti, ma con vaghe loggie, aperti quasi ai passanti: e nelle loggie lo feste famigliari; sulle piazze, nelle chiese, feste pubbliche, religiose e civili, che acquistavano importanza straordinaria; perchè non mancavano coloro che largamente ne facessero le spese, e i rimatori che le cantassero, e gli artefici che vi contribuissero con geniali creazioni, e la folla variopinta che ben sapeva gustarle.
Ma questa intensa avidità di vivere e di godere, se suscitò una più viva e felice percezione della realtà quasi risorgente, in miglior concordia con la vita pratica e col sentimento individuale, contribuì d' altronde ad infiacchire le coscienze, a intiepidire il sentimento religioso, e, anche più, il senso morale. «Il senso stesso del bello—scrive il Rossi—toglieva ai più colti la coscienza della mancanza o della rozzezza delle idee morali, stornando l'attenzione dall'intimo valor delle azioni umane e volgendola piuttosto a considerarne l'aspetto esterno. La parola virtù perdeva il suo significato cristiano; e virtuoso era chi sapesse comunque fronteggiare gli eventi in pace ed in guerra, chi conseguisse molti prosperi successi, chi ostentasse liberalità e magnificenza» (1).

Grandi e generali sono i lamenti e le invettive e le satire, fin dal tempo del Petrarca e del Boccaccio, per citare esempi di poco anteriori al folgorare del Rinascimento, contro la corruttela dei costumi, e specialmente di quelli dei religiosi che con la pratica contraddicevano troppo alle massime bandite nelle loro prediche. «Furono già — scrive il Boccaccio — i frati santissimi e valenti uomini; ma quegli che oggi frati si chiamano, e cosi vogliono esser tenuti, ninna altra cosa hanno di frate se non la cappa: ne quella altresì è di frate; perciò che, dove dagl'inventori de' frati furono ordinate strette e misere e di grossi panni, e dimostratrici dello animo il quale le temporali cose disprezzate avea quando il corpo in così vile abito avviluppavano, essi oggi le fanno larghe e doppie e lucide e di finissimi panni, e quelle in forma hanno recate leggiadra e pontificale, in tanto che pavoneggiar con esse nelle chiese e nelle piazze, come con le loro robe i secolari fanno, non si vergognano. E quale col giacchio il pescatore d'occupare nel fiume molti pesci ad un tratto, cosi costoro colle fìmbrie ampissime avvolgendosi, molte pinzochere, molte vedove, molte altre sciocche femmine e uomini d'avvilupparvi sotto s'ingegnano, ed è lor maggior sollecitudine, che d'altro esercizio.... E, dove gli antichi la salute desideravan degli uomini, quegli d'oggi disiderano le femmine e le ricchezze.... Essi sgridano contra gli uomini la lussuria, acciò che, rimovendosene gli sgridati, agli sgridatori rimangano le femmine.... E quando di queste cose e di molte altre, che sconce fanno, ripresi sono, l'avere risposto: fate quello che noi diciamo e non quello che noi facciamo, estimano che sia degno scaricamento d'ogni grave peso....» (2)
Nè solo è il Boccaccio a scagliarsi contro il mal costume dei religiosi: ecco Matteo Villani, a proposito di un fulmine caduto sul campanile di Santa Maria Novella, rimproverar quei frati, che «disordinatamente passando l'umiltà della regola loro data da san Domenico, vezzosamente intendevano alle delicatezze e ai piaceri temporali»; (3) ecco Franco Sacchetti, quanto e più del Boccaccio, satireggiare nelle novelle, nei sermoni, nei versi, la mala vita dei chierici. «In loro — esclama l'autore del Trecantonovelle — ogni vizio di cupidità regna, avendo sempre gli animi per quella a dire menzogne a tendere trappole, a vendere Iddio e le cose sacre..., che sarebbe
meno male che i templi rovinassono, che essere fatti ostelli di si viziosa gente». (4) E altrove: « li viventi venuti a tanto che bandiscono ogni dì le croci sopra le mogli altrui e tendono le femmine alla bandita, chiamandole chi amiche, chi mogli e chi cugine; e li figliuoli che ne nascono, loro nipoti gli battezzano, non vergognandosi d' avere ripieni li luoghi sacri di
concubine e di figliuoli nati di cosi dissoluta lussuria». (5) E ricordando ancora, che «in molti tempi dell'anno vanno li gioveni e
le giovene donne alli monasteri a fare le delicate merende con balli e canti e con stormenti », lamenta che «l'onestà si rimane dall'uno dei lati ». (6)

(1) Vittorio Rossi, Il Quattrocento. Milano, Vallardi, pag. 8.
(2) Decameron, Giornata terza. Novella VII.
(3) Libro ottavo, cap. XLVI,.
(4) Novella CCXII.
(5) Novella XXV.
(6) I Sermoni Evangelici, le Lettere ed altri scritti di Franco Sacchetti. Firenze, Le Monnier, 1857, Sermone VII, pag. 22.

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