Il barrocciaio

Il barrocciaio
Il rimedio pei topi


Il barrocciaio toscano è un tipo che finirà con lo scomparire, davanti all'incalzante quantità di reti tranviarie, di servizi automobilistici, di bracci di ferrovie che s'incrociano in tutti i sensi, avanzando minacciosamente fra mezzo alla santa quiete delle boscaglie e all'operosa festività delle colline del Chianti.
Gli ultimi avanzi di questa strana stirpe di nomadi hanno, ora, un campo ristrettissimo dove muoversi coi loro pittoreschi traini carichi di fascine, di masserizie, ma per lo più di terrecotte, embrici, mattoni, orci, ornati di manici aggraziati e d'un bello stemma medìceo sulla curva del pancione rosso; un campo d'azione che non va oltre la Castellina, dalla parte di Siena, e oltre Pescia, dalla parte diametralmente opposta al gloriosissimo Chianti.
Di che cosa vive il barrocciaio? di vino, di questioni e d'intemperie. Contro queste poi è corazzato. Lo vedete, sotto un sole che spacca le pietre, con la frusta a tracolla, la pipa in bocca, seguire i muli, cantando l'ottava del Niccheri (1) e segnando la cadenza con grandi scoppi di frusta; oppure, sotto un diluvio torrenziale, giacere sul veicolo, col capo ricoperto dall'ombrello aperto e le gambe fasciato da un cencio di lana inzuppato come una spugna, e dormire come fosse nella più adorna camera del mondo.
Quanto ai muli, sono ammaestrati. Il barrocciaio, che vive in uno stato di perpetua contravvenzione, non si cura di lanternino, di notte, né della mano obbligatoria.
I muli, a gubbie (2), come si usa dire, o a tre, se ne vanno a capo basso, sempre della medesima andatura, scrollando le sonagliere lustre di ottone, per la quali i conducenti hanno una predilezione e una cura speciale.
Scansano gli ostacoli; si fermano quando sono stanchi; fanno stare un tranvai fermo mezz'ora, in piena via maestra; poi ripigliano il loro passo, come dominati da un'unica preoccupazione: quella d'arrivare a destino più tardi che sia possibile.
II barrocciaio toscano e il suo mulo sono gli esseri meno impressionabili che esistano sulla terra. Poverino, detto cosi per ironia, per essere riunito a metter da parte un gruzzolo col proprio lavoro e a diventare padrone del suo, era tanto vecchio, che si ricordava d'avere accompagnato i Francesi, quando calarono a Firenze, durante la lotta per l'indipendenza.
Uomo arguto e pronto al proverbio, segaligno, ossuto, colorito come una statua di bronzo patinata dal tempo, con due occhi furbi dentro una cavità orbitale inverosimile. Poverino non la cedeva a nessuno in fatto di prontezza verbale e di orgoglio paesano.


 


Barrocciaio in piazza Vittorio Veneto


Campanilista nell'anima, era rimasto col pensiero ai tempi ne' quali l'Italia era divisa come uno scacchiere; e anche, se tornava dalla gita, aveva sempre da brontolare contro i forestieri.
«Gli Aretini aggrediscono; i Lucchesi rubano; a Siena mi hanno spogliato», e via dicendo.
Nella cesta, sotto il barroccio, teneva il lanternino, che non era stato mai acceso; un canino pomero tutto pelo e tutta voce, e una vecchia pistola d'ordinanza, sempre carica, perchè credeva, a certi sbocchi, di potersi incontrare negli assassini, come mezzo secolo prima, quando li vide giù alle Strette, radunati intorno al foco, vicino al masso dei ladri, che si scaldavano. Per fortuna aveva il barroccio vuoto; aveva scaricato una cesta di vino di due quintali, (una meraviglia che aveva fatto correr la gente a vedere tutti quei fiaschi messi l'un sull'altro, fino a un'altezza straordinaria, senza che il peso di quelli di sopra rompesse il collo a nemmeno a uno di quelli di sotto), sì che potè sferzare i muli e fuggire a trotto serrato, col cuore che gli batteva nel petto come un fringuello nello stacciòlo (3).
Non si è mai saputo se quei briganti fossero dei semplici boscaioli, intenti ad asciugare l'acqua che aveva impregato i loro giubboni!
Fatto sta che tutti volevano sentire dal Poverino la storiella degli assassini; ed egli non si faceva pregare a raccontarla, tanto che ormai ci aveva fatto l'uso, e la diceva sempre dopo aver caricato la pipa di creta, con le stesse parole: «Io vi parlo di quando le capre portavano gli zoccoli, e i ragazzi nascevano a occhi chiusi...» (4).
Un bel giorno d'agosto, il Poverino ebbe la commissione d'una carica di vasi da giardino, per un signore che stava a Lucca: un lorde russo, come diceva lui.
Si sentiva bene, nonostante i suoi settant'anni sonati, e volle andar da sé a far la gita.
Attaccò la più bella coppia di muli; mise una bella ciocca di convolvolo sul basto a chiodi d'ottone, lucidati con la polvere rossa de' mattoni; le doppie sonagliere, le tirelle incerate di fresco, un fiocco rosso al canino pomero; mutò lo sverzino alla frusta, e... via!
— Badate all' «utomòrbidi », (5) — gli raccomandò la nuora, giovine rubiconda e dispettosa, mentre il Poverino stava per muoversi, dopo essersi assicurato che tutte le funi fossero annodate bene e che funzionasse la martinicca. — Eh, lo so: — rispose — a' tempi miei le un c'erano; il mondo peggiora tutti i giorni! aohè!
E, con uno schiocco secco come una saetta a ciel sereno, s'avviò giù per la strada bianca, in mezzo a un polverone asfissiante, sotto un cielo turchino, che pareva tinto.
La notte fu dura.
Sui vasi non c'era modo di sdraiarsi; e il vecchio, barrocciaio arrivò a un paesino, prima di Lucca, che il sole era alto; e i muli, sudati e stanchi; e lui, più stanco e più sudato dei muli.
A uno svolto, vicino a un muricciolo, c'era un caseggiato candidissimo e due cartelli, uno sotto l'altro.
Il Poverino compitò: Veicoli al passo e Osteria delle forbici. «Più al passo di così — pensò il vecchio barrocciaio — non posso andare; mi fermo, perchè
il secondo cartello mi piace più del primo! » E schioccò la frusta per far più presto.
Un altro schiocco, giocondo quanto il suo, gli rispose.
Dalla parte opposta, ritto sul barroccio vuoto, a gambe larghe, con una mano infilata nella fuciacca rossa, (6) brandendo coll'altra la frusta, cantando allegramente, vide venirsi incontro il suo figliolo.
— Guarda chi c'è!
— O che siete qui?
— Ho camminato tutta la notte.
— Anch'io!
— Ci si mangia bene, qui?
— Io non mi ci sono mai fermato.
— Vuol dire che ci fermeremo oggi!
Scesero, tirarono i muli in un cantuccio ombroso; levarono loro le musoliere, e posero in quella vece il fascio del fieno. Poi, a braccetto come due amici, entrarono nell'osteria.
L'oste, che dalla parlata strascicata si rivelava del paese, si fece incontro premuroso ai due barrocciai.
— Vino? acquavite! tabacco?
— Meglio: da mangiare e da bere; s'ha una fame che la vediamo.
— Ho dei coniglioli teneri come il latte, uova, prosciutto e un vino che risuscita i morti. Di dove venite?
Cosi, cosi, cosi: gli dissero ogni cosa, quel che avevano fatto e dove andavano e perchè.
— Bravo — disse l'oste al Poverino — quel lorde dove andate voi; è ricco sfondato, e, se la mercanzia gli garba, vi darà una bella mancia e un trattamento da re. — E quando ci arriverò? che è lontano?
— Poche miglia. Al tramonto sarete lassù. — O via, oste, — disse il Poverino tutto ringalluzzito all'idea della mancia e della cena risparmiata — via fate presto! — E, voltandosi al figliolo, aggiunse: — Pago io!
 


All'osteria


Nella stanzetta bassa era un fresco delizioso, un'ombra molle, che faceva apparire di fiamma le cose di fuori, lampeggianti sotto il sole, dietro i vetri della finestra.
In un momento, l'odore del fritto si sparse d'attorno, mentre i due barrocdai divoravano il pane e il prosciutto, e si mescevano il vino rosso, frizzante dai boccali gialli e turchini.
L'oste fece le cose in regola: servi un desinare da prìncipi, e non lasciò i fornelli altro che quando gli avventori ebbero consumata ogni cosa. Mentre mangiavano il formaggio, si avvicinò, si mise a sedere accanto a loro, e intavolò un po' di conversazione.
Ma il Poverino, ora che era sazio, si sentiva tornato come a vent'anni, e aveva fretta: «Il conto, — chiese — e alla svelta!».
L'oste ubbidì a malincuore, azzardando: «Ci vuol coraggio, con questo bollore...» e spari nella retrostanza. «Te, col barroccio scarico, — diceva il vecchio al figliolo — puoi essere a casa stanotte; uno di noi è bene che ci sia sempre».
Tornò l'oste col conto, scritto col làpisse in un foglio unto, lo depose con noncuranza sulla tavola, parlottando.
Il giovanotto diede un'occhiata alla cifra, aggrottò le sopracciglia, passò la carta al babbo, con un movimento espressivo della mano.
Ora l'oste, quasi per divagare, chiacchierava, chiacchierava di mille cose inutili e insulse.
— V'è piaciuto il vino? Quel coniglielo doveva essere una delizia... Il cacio no, lo so da me; tanto è vero non ve l'ho neppure messo in conto.
— Ah! ci manca il cacio, su questo conto? — interruppe con intenzione il Poverino, guardando fisso fisso l'oste negli occhi.
— Sì; che volete? ho una cantina magnifica, ariosa, fredda come una ghiacciaia, ma non ci posso serbar nulla, nulla! È infestata alla lettera dai topi. Topi di chiàvica grossi come gatti, con degli ungnelli lunghi come quelli delle faìne e certi denti, certi denti, cari voi! Credete, io darei qualunque cosa per liberarmi da questo flagello, proprio non baderei alle spese.
 


 


— Mettete delle tagliole!
— Sono ammalizziti; non ci s'accostano! — Fate delle polpette coll'arsenico.
— Hanno il naso fino. Fiutano il veleno lontano un miglio! Credetelo, se uno m'insegnasse il rimedio, lo pagherei qualunque prezzo...
Il Poverino diventò serio, e: — Lo volete davvero — disse — il rimedio? Ce l'ho io, e sicurissimo. — Ditemelo, per carità; vedrete se saprò ricompensarvi. — Ecco: — e il barrocciaio si alzò — prima di tutto vo' dovrete preparare un buon mangiare, un mangiare di lusso, pietanze che solletichino il gusto, qualcosa come quel che avete dato a noi...
— Lo farò! — interruppe l'oste, con la voce strozzata dalla commozione e gli occhi lucidi.
— Poi — continuò il Poverino — vo' dovete portare
tutta questa grazia di Dio in cantina e lasciarla,
li, ai signori topi, perchè se la mangino tutta, tutta,
tutta.
— E poi? e poi?...
— E poi, quando saranno ben sazi, vo' dovete scendere in cantina e lasciare ai topi un conto da pagare come quello che avete fatto a noi; e Santa Lucia benedetta mi secchi tutti e due gli occhi, se vi ce ne ritorna più uno!
L'oste, benché fosse di Lucca (7), non volle che i barrocciai gli pagassero, del desinare che aveva loro servito, neanche un centesimo!


(1) Giuseppe Moroni detto il Niccheri (1810- 1880), poeta popolare che si definiva "illitterato"
(2) Gubbie: coppie di muli o di cavalli attaccati a un barroccio.
(3) Staccialo è un piccolo staccio, o, come dice qualcuno, setaccio.
(4) Nascevano a occhi chiusi. — Il popolo toscano, argutamente, notando la presunzione dei moderni adolescenti, che sdottorano e credono di saperne quanto un adulto, suol dire che oggidì i ragazzi nascono «a occhi aperti».
(5) Utomòrbidi: per automobili: storpiature simili sono frequenti in Toscana, anche por vezzo.
(6) Fuciacca: ciarpa rossa di cotone, con cui i barrocciai si stringono i pantaloni alla vita.
(7) Benché foste di Lucca. — il popolo lucchese è famoso per essere nomade, per le sue figurine di gesso, che vende in tutto il mondo, e per la sua meticolosità e taccagnerìa in fatto d'interessi economici.

Tratto da Fernando Paolieri, Novelle Toscane, con note pei non Toscani, Torino, Soc. Edit. Internazionale, 1920
Ferdinando Paolieri (Firenze, 2 maggio 1878 – Firenze, 4 maggio 1928) è stato uno scrittore, poeta e commediografo italian​o. (Treccani)

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Anna Marchi, scrittrice, giornalista, autrice di testi teatrali, romanzi e racconti per bambini.