Le Leggi a Pescia
La tortura — Pene pecuniarie e corporali — Spese per alcuni supplizi
È noto come la nostra storia si divida in due periodi distinti, nel primo dei quali Pescia seguì le sorti dei Comuni più vicini e specialmente di Lucca e di questo periodo scarsi e monelli sono i ricordi che ci rimangono intorno al suo sistema legislativo. Del secondo invece, che è quello in cui ella fu sotto la Signoria di Firenze, cominciata il 7 febbraio 1339 ci rimangono gli Statuti e molte Provvigioni.
Nel primo di questi Statuti, che è del 1340, si leggono tutte le norme di diritto pubblico e privato particolari alla nostra terra, mentre le regole generali di diritto costituzionale venivano determinate dagli Statuti della città dominante, cioè di Firenze, la quale lasciava ampia autonomia in tutto ciò che fosse regolamento di vita locale.
Noi ci proponiamo di riferire appunto le peculiarità più caratteristiche della vita pubblica locale, estraendole e dagli Statuti e dai manuali di pratica giudiziaria, che rappresentano, non meno di quelli, là vita vissuta delle leggi e delle consuetudini giuridiche.
Nello Statuto del 1340 dunque le donne non potevano essere costrette a venire al palazzo pubblico a fare testimonianza a meno che non si trattasse di scoprire reati di sangue; in tutti gli altri casi le donne chiamate a rendere testimonianza, potevano scegliere di farla in chiesa.
Era punito con 5 soldi di multa colui che dopo il terzo suono della campana, si trattenesse a mangiare o a bere in alberghi o taverne, e nel doppio l’albergatore o taverniere.
L’adulterio con donna onesta e di buona condizione era punito con 100 lire di denari piccoli; con 200, se l’adulterio era commesso con violenza; se con violenza ma con donna di vil condizione, purché onesta, con 50 lire.
Per amore di confronto, ricorderemo che nello Statuto di Ovada nel genovesato (sec. XIV) si stabilisce la multa di lire 30 se l’adulterio è commesso nella casa del marito, e quella di lire 15 se altrove. Non potendo l’adultero pagarla, aveva, nel primo caso, tronca la testa, nel secondo la mano destra; in ogni modo poi la donna perdeva le sue doti, metà delle quali andava al marito e metà ai figli.
Mappa del Buonsignori, 1584/94
Porta alla Croce, il luogo delle esecuzioni
Lo stupro e la violenza carnale erano punite colla pena di 30 lire di Genova, se si trattava di donna maritata; trattandosi invece di una fanciulla o di una vedova, il reo aveva l’obbligo di sposarla, ovvero costituirle una dote; veniva poi condannato a morte se non faceva la prima cosa nè poteva, per manco di mezzi, fare la seconda.
Ma ritorniamo a noi.
Nel 1363 il Consiglio generale deliberava che chiunque ammazzasse uno della famiglia Garzoni avesse lire cento (1). I ladri, gli assassini si punivano con la morte.
Nei Camerari si leggono notizie che danno le spese incontrate per alcuni supplizi; così troviamo: 1474 (30 maggio) lire 22 soldi 4 al maestro di giustizia per la esecuzione di Piero Pagolo ladro di Lucca; lire 1 soldi 2 a Giuntino messo per accompagnare alle forche 3 condannati; lire 1 soldi 11 al banditore di detta giustizia; soldi 13 per seppellire il giustiziato; lire 2 soldi 4 per tre fiaschi di trebbiano, per candele di cera, zucchero e confetti per confortare la notte e la mattina detto Piero; lire 2 a Giovanni legnaiolo per accomodare le forche e rifare la scala.
1475; lire 22 soldi 8 a Piero maestro di giustizia per sua venuta a Pescia e pel taglio del capo al giustiziato ; soldi 20 a Giovanni di Giorgio «pel ceppo e per lo maglio e montatura della mannaia».
1476; lire 4 al maestro di giustizia pel taglio di un piede a Giovanni di Marco; lire 1 soldi tredici a Benedetto barbiere che medicò detto Giovanni.
1482; lire 5 al manigoldo per mozzatura ad un uomo delle orecchie; lire 1 soldi 13 a Gregorio barbiere per «medicatura et arditura delle orecchie che furono tagliate».
In quei tempi si giudicava dannoso all’erario, e inutile tenere molti individui per tutta la vita chiusi in un carcere; quindi se il delitto non era grave, si contentavano di un piede o delle orecchie o d’una multa; se no, si ricorreva alle forche o alla decapitazione.
Per quasi tutte le contravvenzioni, ed anche per qualche delitto minore, vi erano le pene pecuniarie, facilmente sopportate dalla classe agiata e commutate in afflittive se il colpevole non poteva pagarle; scrive il Cibrario (2).
«I ricchi, dice un illustre scrittore, compravano dappertutto con moneta impunità, ed i poveri per le cose non molto gravi venivano mutilati, onde gran ciurma di monchi e dinasati ingombrava le vie delle città popolose».
Tutta gente che poteva attaccare il voto ai santi del paradiso, se quelle mutilazioni erano state fatte tanto a garbo, da non perdere la vita nell’atto dell’operazione. Ma a Pescia c’era il barbiere che contava per un santo. Egli, abituato all’arte dello Sfregia, cantato dal Berni, faceva a tempo perduto, il cerusico, e tenendo d’occhio il manigoldo, ne guidava la mano spietata, e quando i casi richiedevano l’intervento del barbitonsore, la sua sapienza non dava mai in fallo, salvo i casi in cui la mutilazione di questo o di quel membro riuscisse, come quelle ciambelle che vengon senza buco!
Tommaso Garzoni ci lasciò il ritratto dei barbieri del cinquecento: «Servono per cavar sangue a gli amalati et per mettergli le ventose, far le stoppate, curare i denti guasti et simili altre cose, onde l’arte loro è subalternata per questo alla scienza della Medicina».
Nel secolo XIV chi bestemmiava Dio o i santi era punito con la multa di 10 lire di denari fiorentini piccoli, e, se non pagava la multa, il bestemmiatore dovea stare alla berlina in mezzo alla piazza davanti il palazzo del Comune dall’ora di terza all’ora di nona, dopo di che veniva battezzato con tre brocche o coppe d’ acqua fredda che gli venivano versate per intiero sul capo.
Nel quattrocento chi bestemmiava Iddio e la Vergine veniva condannato a lire 25 di danari per ogni volta; se poi bestemmiava i santi del paradiso, la condanna era di lire 10 di denari per ogni volta! Se il colpevole non avesse pagato entro 10 giorni veniva, con una mitra in capo, fatto girare per tutte le vie di Pescia e frustato; solo dopo questo riaveva la libertà.
Nel secolo XVI gli uffiziali del comune di Pescia condannavano i bestemmiatori alla multa di 10 fiorini; se non veniva pagata entro 10 giorni, il reo dovea rimanere per un’ora, colla sola camicia, nella piazza, davanti il palazzo del Comune, dall’ora di terza all’ora di nona, e gli si versavano tre brocche d’ acqna sul capo e veniva assolto dal pagamento. «Questa umida tassa accresceva probabilmente un tacito e novello delitto, simile al primo!» osserva il Baldasseroni.
A Trieste nel trecento i bestemmiatori che non pagavano la multa, venivano per tre giorni immersi tre volte al giorno in mare.
A Firenze nel 1528 la pena pei bestemmiatori poteva arrivare, secondo la qualità della persona, anco alla morte.
Nello Statuto compilato il 1571 (presso di noi) si vede che nella terra di Pescia vi erano i così detti sindaci dei malefici i quali si estraevano a sorte ed erano obbligati a denunziare, entro tre giorni, tutti coloro che avevano commesso qualche malefìcio o delitto. Il Vicario allora condannava il colpevole, e se la pena che gli veniva inflitta era in denaro, andava una metà al Comune, l’altra al denunziante.

Quei che ricusavano detta carica pagavano lire dieci, se non erano legittimamente impediti.
La legge accordava alla proprietà ed ai suoi frutti un diritto assoluto. I trasgressosi erano abbandonati alla discrezione del possidente, «che poteva bastonarli, purché non a morte, ed offenderli in qualunque modo».
Chi fuggiva di carcere o favoriva la fuga, pagava cento lire. Chi, maggiore di 14 anni, diceva bugia nel Vicariato della terra di Pescia, era condannato in lire 2, e se avesse rivolto a qualche persona la parola traditore, falsario e becco (!) era punito con lire 5.
Da un codice del secolo XVI (presso di noi) contenente memorie di un Pietro Turriani da Pescia, giudice di più Potestà nel fiorentino, si rilevano alcune notizie intorno agli usi e alle leggi di quei tempi in Pescia.
Non si poteva dar tortura a uno chefussi rotto o crepato , ma si permutava ogni tratto di fune in 3 mesi di confine; nemmeno si poteva applicar la fune alle persone di dignità, nè ai minori di 14 anni, i quali però potevano esser frustati. I tratti di corda si davano di regola in pubblico.
Scrisse Corrado Ricci: «Uno dei libri più dolorosamente curiosi sarebbe certamente quello in cui fossero raccolte, dalle varie cronache municipali tutte le torture più strane e più terribili applicate nel medio-evo».
Non si potevano tenere nè portare Rotelle o Brocchieri fatti alla milanese. L’Auditore Cavalli scrisse il 26 settembre 1600 al Vicario di Pescia che gli autori di risse, anche se restati feriti o stroppiati, si condannassero a 6 mesi d’esilio.
Nel gennaio 1541 gli Otto di Guardia e Balia di Firenze stabilirono che il Maestro di Giustizia, come premio del viaggio per recarsi a Pescia, avesse lire 21 oltre ai seguenti premi per le esecuzioni. — Per impiccare uno lire 7; per tagliare la testa a uno lire 7; per uno che vada sul carro attanagliato e poi impiccato lire 21; per uno che vada sul carro e poi squartato e fattone altra maggiore giustizia, lire 35 e quando andasse ad appiccare i quarti in qualunque luogo, lire 4; per impiccare uno e abbruciarlo lire 14; per tagliare una mano o simil membro, lire 7; per bollare uno lire 1; per tagliare le orecchie lire 1; per scopare uno sull’asino, lire 4; per scopare uno a piè, lire 3. La pena della scopatura era l’ esser frustato colle scope. Chi rubava o uccideva si puniva colla morte.
Le forche si alzavano «nella piazza (oggi Vittorio Emanuele) dinanzi alla Canova».
Nei casi speciali il magistrato ricorreva per consiglio i Firenze; ad esempio, trovo che in un caso assai salace si trattava di una moglie caduta in sodomia) essendo il giudice ricorso agli Otto di Balìa, questi gli risposero che, trattandosi di meretrici spontaneamente pazienti, solevano frustarle, ma trattandosi di persona rozza che a quello si era indotta per far la volontà del marito, si poteva mitigar a pena, arbitrio judicis.
A Venezia, nel secolo XVI, la sodomia era punita perfino colla morte; a Lucca nel 1448 «s’istituì l'Uffizio delonestà intento a punire le passioni contro natura ed a ravvivare gli amori leciti».
Affinchè i bandi fossero osservati in Pescia e nella Valdinievole, il Vicario aveva a suoi ordini un Bargello, un luogotenente a cavallo, un caporale e 20 birri armati. Il salario del Bargello era di 16 scudi al mese; del luogo tenente 7; del caporale 5, e dei birri 3 per ciascuno. I diritti
che spettavano al fìsco dopo una condanna, erano i seguenti; per fune lire 3 soldi 10; per gogna e asino lire 2; per galera a tempo lire 7; per galera perpetua lire 10 soldi 10; per confino dato per permuta lire 3; per amputazione di membra lire 7.
Narrano le cronache pesciatine che sulla fine del settecento un Biagini, nel recarsi dalle carceri al luogo del supplizio, (che era allora nella piazza di S. Francesco, ove attualmente trovasi lo stabilimento di disinfezione) essendo da molto popolo accompagnato, a certi che s’affannavano a correre avanti, dicesse, fermatosi un poco: — Che correte? tanto, senza di me, la festa non si fa!
Pare però che, cambiando i supplizi, cambiasse anche la località poiché troviamo che le forche le quali, come abbiamo veduto, nel secolo prima si arrizzavano in cima di piazza, ora si alzavano invece in una piazzetta al principiare dell’attuale borgo degli Alberghi, tanto è vero che un podere presso quei fabbricati si chiama anch’oggi leforche. Evidentemente i costumi cominciavano ad ammorbidirsi e lo spettacolo di sciagurati pendenti allo strumento infame, si volle lontano dagli occhi dei cittadini.
(1) Libro delle Reformagioni c. 72. I Garzoni ghibellini banditi da Pescia avevano tentato di togliere la loro patria al dominio de’ Fiorentini.
(2) Della economia politica del Medio Evo. Torino, Erodi Botta, 1861.