La Reggenza: Francesco I

La Reggenza
tutto sommato, ci andò bene.
 

Si narra che, a Monaco di Baviera, Napoleone Bonaparte illustrasse la storia della battaglia di Austerlitz al giovane principe Ludwig I , pangermanista ed ammiratore della Prussia. Di fronte al malcelato disinteresse del giovane ribelle, nonno di Elisabetta “Sissi” e del ben più famoso Ludwig II,  il Grande Còrso si infuriò, alludendo alla fortuna del suo contestatore, dicendo che, nel caso in cui la Baviera avesse scelto, invece, la coalizione anti-francese, al posto del “giovanotto”, a quell'ora, ci sarebbe stato un principe Murat.
Non c'è da scandalizzarsi a causa dell'aneddoto qui riportato, perchè la politica europea, dal '700 in poi, assume il carattere di “grande gioco” tra le potenze in ballo.
Difatti, questa tendenza si inaugura nella prima metà del secolo con le guerre di successione, a cui segue il conflitto dei sette anni. È un periodo interessante, foriero di conseguenze fino al nostro '900: il Nord America, con l'estromissione della Francia, entra nel mondo anglofono, caratterizzato da common law, “habeas corpus” e protestantesimo; nel centro Europa, resiste l'Impero d'Austria, che garantirà, con pregi e difetti, la stabilità  della zona mitteleuropea fino al 1918, dando origine ad una vera e propria civiltà (cfr. Joseph Roth, “La Cripta dei Cappuccini”, e François Fejto, “Requiem per un impero defunto”); la Russia, con Pietro il Grande, guarda sempre di più all'Europa, ponendo addirittura la capitale - S. Pietroburgo - sul Baltico; nel mondo germanofono, cresce l'astro della Prussia, e il continente riconosce in Berlino una nuova capitale da tenere in considerazione; la penisola iberica “ha perso l'attimo fuggente” dei due secoli precedenti, e tende ad isolarsi; l'Inghilterra comprende che l'oculatezza nelle scelte di politica estera vale quanto la potenza militare delle fanterie di Stati più estesi; l'Italia vede crescere la potenza dei Savoia.

Francesco Stefano di Lorena in un ritratto di Pierre Gobert, risalente al 1715 circa.
Francesco Stefano di Lorena in un ritratto di Pierre Gobert, risalente al 1715 circa.

Ciò premesso, alla morte di Gian Gastone de' Medici, la Toscana, divenuta Granducato dopo l'annessione di Siena operata da Cosimo I a metà '500,  viene assegnata nel 1737 alla casa Lorenese al termine della guerra di successione polacca: infatti, Francesco Stefano di Lorena viene compensato per la perdita del ducato avito di Lorena-Bar,  assegnato in compensazione dalla Francia al re di Polonia Stanislao Leszczynski.
Vi sono, ora, due ulteriori considerazioni preliminari da fare.
In primo luogo, Gian Gastone ha diviso – e continuerà a farlo - i giudizi degli storici.
Per alcuni, tale figura si riduce alla “corte dei miracoli” installatasi con lui a Palazzo Pitti; per altri, è un sovrano malinconico, che comunque operò nella riorganizzazione dell'ateneo di Pisa e nel ridimensionamento dell'influenza della Chiesa; per altri ancora, è stato condizionato da una congiuntura internazionale difficilissima e sfavorevole.
Se, da una parte, vi sono i morti di carestia trovati da Francesco Stefano lungo le strade al suo arrivo, dall'altra resta, comunque, la testimonianza di Montesquieu, per il quale “non c'è città in cui si viva più modestamente che a Firenze: con una lanterna cieca per la notte e un ombrello da pioggia, si è completamente equipaggiati. C'è un governo molto mite: nessuno conosce e si accorge del Granduca e della sua Corte. Proprio per tale ragione, questo piccolo Stato sembra grande”.  Secondo Indro Montanelli, addirittura, dopo l'estrema unzione, “anche se aveva commesso tanti peccati, non ci stupiremmo di sapere un giorno che è finito in Paradiso e che non ci ha trovato suo padre, Cosimo III, che di peccati non ne aveva commessi punti[1].
In secondo luogo, piace qui ricordare l'origine leggendaria dell'insegna granducale, che, alla fine degli anni '80 del XX secolo, ha conosciuto un vero e proprio revival nella forma di adesivo automobilistico! Il riferimento è alla battaglia di Tolemaide, nel corso della Crociata del 1191.
Si narra che l'imperatore Enrico VI, in quell'occasione, abbia accordato al duca Leopoldo V questo stemma, basato sulla tunica del duca insanguinatasi durante la battaglia e rimasta bianca solo nella fascia protetta dal cinturone della spada. Avendo perduto il proprio stendardo durante la mischia con i nemici, Leopoldo avrebbe innalzato la tunica come punto di riferimento.
 

Bandiera

Tutto quanto premesso, torniamo al 1737.
Francesco Stefano aveva sposato Maria Teresa d'Austria, figlia dell'imperatore Carlo VI, e divenne imperatore del Sacro Romano Impero nel 1745; dunque, la Toscana da quell'anno si ritrova con un capo dello Stato residente a Vienna.
Dalla capitale imperiale egli guidò il Granducato mediante la “Reggenza” per ventott'anni, fino al 1765.
Anche se nell'arco a lui dedicato nell'antica Piazza S.Gallo, oggi Cavour, l'architetto Jean Nicolas Jadot lo fa ritrarre alla testa delle sue truppe in una campagna balcanica, non fu mai un vero e proprio condottiero, come Eugenio di Savoia, bensì un politico che si peritava di scoprire uomini di valore, per attrarli al suo fianco e impiegarli in funzioni adeguate alle loro capacità.
Cosa trovò l'imperatore scendendo da Bologna con la consorte nel 1739, e potendo restare nella  nuova patria dei suoi futuri discendenti per soli tre mesi?
Crisi economica, disoccupazione, carestie e tanta miseria!
La popolazione, ridotta ad un milione circa, era intenta alla lotta per la sopravvivenza, e la cultura non ne occupava più del 10 %, percentuale concentrata a Firenze, Siena, Pisa e Livorno.
Secondo Abele Morena, nel “Discorso storico ed economiico. Gli Accademici Gergofili e la libertà di commercio (1753-1860)[2], “lo squallore della morte, che si vedeva sopra i volti dei Toscani, vinceva la paura della malsania e dell'impoverimento. Si trovavano per la campagna le persone semivive con l'erba in bocca. Ben si ricorda della supplica che fece al Granduca un parroco di campagna per ottenere una quantità di ghiande per sfamare il suo popolo languente. Gli spedali non bastavano a ricever i malati, e se ne dovevano aprire di nuovi nelle chiese; e si vide dappertutto associar cadaveri alle sepolture”.
Intanto, il primo Reggente, Marco di Craon, aveva provveduto ad allontanare da Palazzo Pitti la “congrega” dell'ultimo Medici, espellendola dallo Stato e ricevendo così la gratitudine dei Fiorentini.
Oltre all'appena citato presidente, si nominano qui gli altri due membri principali della c.d. Reggenza: il conte Emmanuel de Richecourt, cui erano state affidate le finanze esauste dello Stato, e Carlo Rinuccini, presidente del Consiglio di Guerra. Continuò ad esistere, in più, la medicea Consulta di Grazia e Giustizia, con funzione di suprema istanza per il diritto civile e penale.

Il Principe di Beauvau-Craon di Hyacinthe Rigaud. Nancy, musée lorrain
Il Principe di Beauvau-Craon di Hyacinthe Rigaud. Nancy, Musée Lorrain

Si osserva subito che il Granduca rimase in stretto contatto con la Reggenza da lui istituita, che era appunto tenuta a richiederne il beneplacito sui provvedimenti finali.
La presenza dei funzionari lorenesi, benchè fosse bilanciata da elementi indigeni come anche Pompeo Neri, spinse la vecchia corte di Gian Gastone a cercare di metterli in cattiva luce presso la popolazione. Quest'ultima, però, vide che la Reggenza assolveva i suoi compiti in maniera più corretta ed efficace dei  predecessori : inoltre, i casi di arricchimento indebito a spese dello Stato e di peculato non avvenivano più all'ordine del giorno come durante il regno dell'ultimo Medici.
Sotto l'aspetto del lavoro, all'epoca vigeva ancora il sistema delle Corporazioni, nato nel Medioevo, che regolava severamente le arti e i mestieri: Francesco Stefano non riuscì ad abolirle[3], ma cercò di agevolare le professioni riducendo le imposte.
In particolare, per la manifattura della seta toscana risultò benefico e di sollievo un trattato di commercio tra il Granducato e gli Stati Austriaci, stipulato per volere del “Granduca - Imperatore”.
Per quanto concerne l'agricoltura, Francesco cercò di passare da un'economia pianificata e rigidamente regolata dalle leggi dello Stato al libero scambio di prodotti agricoli.
Si segnala, inoltre, un primo tentativo di bonifica della Maremma, a d opera di coloni boemi, che morirono però di malaria senza ottenere successi di rilievo.
Per la questione delle finanze statali, in completo dissesto per anni di corruttela e malgoverno, si stabilì di abbassare il tasso degli interessi corrisposti al 3- 3,50 %, facendo un primo passo per la riorganizzazione del debito pubblico.
Il periodo della Reggenza, tutto sommato, riscuote il giudizio positivo di due autorevoli studiosi dei Lorena, quali Adam Wandruszka e Luigi Dal Pane, per cui la Reggenza “spianò la via” alla stagione di Pietro Leopoldo.
Restano due aspetti negativi : il primo consiste nel contributo dell'imposizione fiscale alla politica bellica dell'Austria, anche se buona parte delle imposte, dei tributi e dell'appannaggio del regnante restavano sul territorio; il secondo , invece, riguarda l'influenza della Chiesa nei rapporti con lo Stato, anche se Francesco Stefano indirizza comunque verso una cesura tra le sfere di competenza. Si sta alludendo qui al caso Crudeli. Lo scrittore Tommaso Crudeli, di Poppi, venne arrestato e incarcerato nel convento di S. Croce a causa della pubblicazione di versi antireligiosi.

Tommaso Baldassarre Crudeli (Poppi, 21 dicembre 1702 – Poppi, 27 marzo 1745)
Tommaso Baldassarre Crudeli (Poppi, 21 dicembre 1702 – Poppi, 27 marzo 1745)

L'interrogatorio si protrasse per tredici mesi, finchè la Reggenza impose di trasferire l'imputato in una prigione statale. Qui la detenzione carceraria venne commutata nel confino perpetuo presso il paese natale. Venne dunque statuito che, da allora in poi, le azioni coercitive dell'Inquisizione toscana sarebbero dipese dal consenso preventivo, e dal concorso operativo, dello Stato. In più, Francesco Stefano incaricò il governo di Firenze di sospendere momentaneamente i tribunali del Sant'Uffizio presenti sul territorio toscano, al fine di emanare una legge sulla censura più tollerante di quella precedente. L'attività dell'Inquisizione potè riprendere nel 1755, ma su una scala ridotta rispetto a prima, fino alla cessazione definitiva sotto il secondo Granduca lorenese.
Piace, in conclusione, ricordare le “Instructions” di Francesco al figlio Pietro Leopoldo: egli raccomandava di trattare tutti i sudditi con dolcezza e cortesia, per conformarsi al carattere “dolce e mansueto” cristallizzatosi nei Toscani (antichi, ndr), adattandosi sotto ogni aspetto allo spirito e ai costumi della nazione toscana.
[1] storia d'Italia, XXI vol., pag. 124
[2] Arezzo 1899 (vol I, pag. 24)
[3] Vi penserà Pietro Leopoldo.

 

 Giuseppe Corsi- giuseppe.corsi.fi@gmail.com
La Leopoldina. Il codice penale toscano del 1786

Fino dal nostro avveni­mento al trono di Toscana riguardammo come uno dei nostri principali doveri l'esame e riforma della le­gislazione criminale, ed avendola ben presto rico­nosciuta troppo severa, e derivata da massime stabi­lite nei tempi meno felici dell'Impero Romano, o nelle turbolenze dell'anar­chia dei bassitempi, e specialmente non adattata al dolce e mansueto carattere della nazione procurammo provvisionalmente temperarne il rigore con istruzioni ed ordini ai nostri tribunali, e con particolari editti con i quali vennero abolite le pene di morte, la tortura, e le pene immoderate e non pro­porzionate alle trasgres­sioni ed alle contravven­zioni alle leggi fiscali fin­ché non ci fossimo posti in grado, mediante un serio e maturo esame, e col soc­corso dell'esperimento di tali nuove disposizioni di riformare intieramente la detta legislazione.
Con la più grande soddisfazione del nostro paterno cuore abbiamo finalmente riconosciuto che la mitigazione delle pene, congiunta con la più esatta vigilanza per prevenire le ree azioni, e mediante la celere spedizione dei pro­cessi, e la prontezza e sicu­rezza della pena dei veri delinquenti, in vece di accrescere il numero dei de­litti ha considerabilmente diminuiti i più comuni, e resi quasi inauditi gli atro­ci, e quindi siamo venuti nella determinazione di non più lungamente diffe­rire la riforma della legi­slazione criminale con la quale, abolita per massima costante la pena di morte, come non necessaria per il fine propostosi dalla società nella punizio­ne dei rei, eliminato affat­to l'uso della tortura, la confiscazione dei beni dei delinquenti come tendente per la massima parte al danno delle loro innocenti famiglie che non hanno cpmplicità nel delitto, e sbandita dalla legislazione la moltiplicazione dei de­litti impropriamente detti di lesa maestà, con raffi­namento di crudeltà in­ventate in tempi perversi, e fissando le pene propor­zionate ai delitti, ma inevi­tabili nei respettivi casi, ci siamo determinati a ordi­nare con la pienezza della nostra suprema autorità quanto appresso[...]

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