Ricordi di un ragazzo/1

Il Domatore di Pulci
Ricordi di un ragazzo nel 1890
parte prima
 

"Il domatore di pulci e altri fatti della mia vita (Firenze)" di Ettore Allodoli, serie di memorie del giovane Ettore e segnalata dalla critica per il tono delicato e intenso, lo stile limpido e finemente ironico. Si tratta di bozzetti e memorie dell'infanzia dell'autore, ricordi di figure bizzarre, come appunto il domatore di pulci del titolo che impressionò la fantasia del bambino accompagnato dal nonno alla fiera domenicale.
 

"Mi ci portò il mio nonno durante una di quelle passeggiate pomeridiane nelle quali si strascicava la nostra noia da un punto all'altro di Firenze, girando senza meta, curiosando e bighellonando, e su tutte le cose che si vedevano, su tutte le persone che ci passavano d'accanto quello scoglionato del sor Giuseppe aveva da dire la sua.
Ed io per la mano a lui, voltando di qua e di là il visuccio paffutello, godevo dentro di me, senza saperne bene il motivo, di quell'ozio, di quell'osservazione, di quell'ambulante solitudine nostra in mezzo alla gente.
C'era un'aria di sonno, di pigrizia, di mollezza diffusa per le vie e per le piazze nella Firenze di quei tempi, attorno al 1890, c'erano tanti visi caratteristici, i soliti per lo più, per le solite vie, alle solite ore, nei soliti posti. La miseria era molta a quei tempi, ma s'era contenti lo stesso con un frizzo, con una scampagnata, con una passeggiata per i viali o per le vie del centro, nelle ore pomeridiane.
S'era già mangiato sulle cinque o giù di lì, e qualche volta si digeriva aspettando l'otto per andare al loggione di Pagliano [oggi teatro Verdi]. Ma se c'era una prima rappresentazione bisognava andarci anche alle sei, col boccone in bocca, e lì, dopo un' ora di parolacce, motti, spinte, rutti e cazzotti, con l'orecchio ancora intronato dalla vociaccia dell'aranciaio che al lume fumoso e nauseabondo dell'acetilene assisteva con serena imperturbabilità alle furibonde lotte ch'eran necessarie per prendere i biglietti, si potevano infilare di corsa le squallide scale e precipitarsi su, per sedersi in sette od otto su una pancaccia obliqua e traballante, affacciati alla vastità ancora cupa e gelida del grande teatro. E il piccino poi si addormentava, con la testa appoggiata al lurido e sbuzzato davanzale del palchetto, sul più bello del Barbiere o del Trovatore.
Ma non sempre si potevano avere quelle fiere emozioni. Allora il sor Giuseppe, per il quotidiano divertimento del pomeriggio, sceglieva ingegnose combinazioni che, grazie alla sua fervida fantasia fiorentinesca, potevano essere molto svariate; andare a piedi fino a Porta Romana e poi con un diecino d'omnibus farsi riportare fino in Piazza della Signoria; oppure, secondo le stagioni, andare al Parterre a vedere se c'era qualche baracca nuova. anche spingersi piano piano fino al cavalcavia di Via Scialoia e aspettare che in quello stretto spazio passasse sulle nostre teste rincorbellite il fragoroso rovinìo d'un treno lampo. E poi e' erano molte volte mète fisse che erano una vera fortuna, e che ci davano per tutto il giorno tranquillità e sicurezza; là una predica, quà le quarantore, le fiere domenicali di quaresima, la benedizione in qualche chiesa di là d'Arno, o la levata dei pandiramerini caldi al forno del Melini, presso il Ponte Vecchio.
Ma talvolta la buona Firenze, così feconda per noi di attrattive sempre nuove e sempre varie, non offriva proprio nulla di diverso dal giorno prima. In questi giorni, allora, il sor Giuseppe che con una mano teneva stretto il suo piccino e coll'altra roteava fieramente un bastoncello su cani e moccioni che ci strisciassero troppo vicini, portava in giro la sua visibile inquietudine per le vie del centro tra Piazza San Firenze e il Mercatino di San Piero, tra il Duomo e l'Annunziata, tra Piazza della Signoria e le Logge del Porcellino.
E intanto non ci si lasciava sfuggire le cose peregrine che ci fluttuavano intorno; la nappa, la bietta, le gambe storte, il popone di questo o di quello; e se era proprio reale, allora, ma con molta delicatezza, si faceva anche il tentativo di soffregarsi un po' come per caso, a quella gobba fortunata, né mancavano le puntatine tenere del sor Giùseppe a qualche vecchietta ripicchiata che veniva avanti pari pari, diretta alla novena o al mese mariano, (secondo i casi) di Badia o di San Firenze.
Nulla sfuggiva, della solita vita, alla nostra penetrante osservazione. Si sapeva che a quell'ora, su quella bottega, s'era a prendere una boccata d'aria il ministro perchè il padrone era andato a cena, e se !a fascettaia di Piazza San Firenze chiamava il giornalaio di faccia, sul canto del Bargello, che l'aiutasse a mettere le bande, voleva dire che erano le nove l'estate e le sette d' inverno.
Cerca cerca, qualche cosa si trovava. Ma l'imprevisto ci veniva da quelle botteghe dove nessuno aveva trovato da far bene, quelle botteghe dai padroni e dai generi fluttuanti dove stavano nei mesi caldi dei cipolloni i venditori di cappelli di paglia e nell'inverno i buzzurri flemmatici e immobili dinanzi alla fumante pattona o alle croccanti bruciate, per nulla turbati dai suoni che al loro indirizzo inviavano, con la bocca o col culo, i beceracci che traversavano la strada. In coteste botteghe, quando il buzzurro era già andato via ed era troppo presto per il cappellaio, ci si trovava sempre qualchecosa di nuovo. E il sor Giuseppe gongolava per la scoperta che quel giorno avrebbe fatto la gioia del suo piccolo compagno d'avventure.

In una di queste botteghe, presa a nolo per pochi giorni, in Via del Corso dalla parte degli Scolopi, mi portò, in un pomeriggio di quegli anni lontani, il mio nonno che non mi aveva detto nulla prima, per farmi una sorpresa. S'entrava in una stanza in cui non c'era nulla di straordinario; una di quelle botteghe che, quando non c'è il banco della vendita e non sono più botteghe, danno un senso di tristezza, di sgombero, di provvisorio. C'era solo una tavola, intorno a cui s' affollavano i visitatori. Un uomo grosso, (mi pare d'aver sentito dire che era un tedesco) con un sorriso gentilissimo e con parole incomprensibili, metteva mano ad una grossa scatola chiusa con un coperchio di vetro; l'alzava, e là dentro, oh meraviglia, tanti cosini neri, saltellanti e spiccanti sopra un fondo bianco d' ovatta, danzavano una lor danza pazza e misteriosissima, accompagnata dalla musica boccale del loro padrone.
Pulci pulci e pulci ! Grosse, paffute, alcune immense, alcune con addosso una sottilissima striscia di carta velina di vario colore, come vestite, come ballerine di un mondo infinitamente minimo che s'apriva ai miei occhi tutto racchiuso in una scatola di cinquanta centimetri di larghezza! Nel mondo piccolo borghese di un bimbo di sette anni s'apriva lo spiraglio dell'avventura, dello straordinario, del mondo meraviglioso che pare non esista, ma che è accanto al nostro, che è una realtà anch' esso, e che ogni tanto ci svela la sua vita con improvvise apparizioni di sogno e di desiderio.
Ballavano, schizzavano, ricadevano sul molle bianco tappeto che loro serviva di casa, quelle pulci così intelligenti, così fatali, così diaboliche. E mentre gli altri visitatori se ne andavano via, dopo pochi minuti, con un moto d'impazienza nel volto, o di noia, e qualcuno anche schiacciando un moccolo per il ventino speso male, io non potevo staccarmi da quella tavola, da quei punti neri folleggiane su quel soffice cotone bianco che pareva spuma di un mare microscopico veduto a un' immensa distanza, attraverso un buco, un pertugio aperto nelle mura del mondo.
Sentii esser cosa meschina e gretta dell'opinione della maggioranza discorde dal mio entusiasmo.
Non rammento se ci fui una volta sola, o più; mi pare una volta sola, e ripassando pochi giorni dopo per Via del Corso, trovai la bottega chiusa, inesorabilmente chiusa. Davanti a quella porta sprangata un primo senso di freddo e di delusione deve avere invaso l'animo mio.
Una volta sola, probabilmente, dunque: e mi pare ancora di sentire il nonno che, noiato di quelle pulci, intimorito che qualcuna invece di ricader sull'ovatta gli saltasse addosso, mi tirava via per il braccio, ed io ostinato a vedere. Il Tedesco (chiamiamolo così) col suo solito sorriso implacabile, con una correttezza inappuntabile si alzò la manica della giacca, e mise a nudo un braccio muscoloso nerboruto e peloso dal polso al gomito, bianco e roseo fino alla spalla. E con molta grazia lo distese all'altezza della scatola. In men d'un minuto, quel braccio era nero, denso di pulci schizzate e saltate su quella carne con una frenesia di matta voluttà, con un' ingordigia di succhio di sangue che le faceva, pur ficcate entro quella ciccia grassa e robusta, tremolar tutte d'una rabbia convulsa. Chi potrebbe dimenticare più quel braccio teso con fredda rigidezza marmorea, tutto brulicante di quella vita infinitesimamente feroce? Cen'era qualcuna, di quelle pulci, che non avendo trovato posto sulla parte liscia del braccio, s'era insinuata tra pelo e pelo, e se ne stava protetta da quel duro appoggio, come dietro un albero in una fitta selva.
E l'uomo sorrideva compassatamente, se non che, talvolta, sulla faccia, forse a qualche strizzone un po' più forte di quelle acute bocche, increspava le labbra a un senso di ebete piacere, socchiudendo un po' gli occhi, come uno che venga meno, ma con dignità, in un amplesso d' amore. Poi fece un fischio, un fischio stridulo e acutisSimo, e a poco a poco le pulci se ne ritornarono una dopo l'altra, quiete, immobili sul fondo ovattato.
Aveva termine ciò che l'uomo, il domatore meraviglioso, nel suo gergo strambottolesco, chiamava il «pasto alle belve». E richiudeva la scatola, e tutto era finito. Tutto era finito: ma rimaneva nell'anima l'eco di una meraviglia, la visione di quei punti neri saltellanti, di quel braccio forzuto fermo e immobile nel succhio di quelle bocche implacabili.

Passava davanti a quella meraviglia l'indifferenza stupida della moltitudine; il fanciulletto vi lasciava il suo cuore e se né riempiva la mente per dire e dire, raccontare e raccontare a chi?... a un uomo ancor giovane dallo sguardo profondo, immobilizzato sur una poltrona, con un giornale in mano; a una piccola donna, dalla piccola faccia intelligente e curiosa, tutta occupata di romanzi e di storielle, forse perchè il dolore meno si facesse ricordare nell'animo suo e perchè il fanciullo crescesse lieto e spensierato e inconscio, nella triste e malinconica casa. E la mamma rideva al racconto, scrollando la testa, dubitando e il babbo sorrideva stancamente e lentamente, o, se troppo buffo era l'entusiasmo dell'omino che raccontava gesticolando, con un convulso scoppio di risa che lo scuotevano tutto, s' abbandonava sulla spalliera.
Quanti anni passarono di poi! e domatori di pulci non ne vidi più né seppi che ci fossero. E solo quando si riconduceva allo spirito, nel raccoglimento del dolore, la vecchia Firenze di quegli anni che son rinati ora nella fantasia, allora risorgeva anche la bottega di Via del Corso e le pulci saltellanti ed erano, o mi parevano, una mia creazione, intorno alla quale si radunasse la vita d' un altro, di un coetaneo di me stesso, la vita di uno a cui guardassi con invidia e desiderio intenso e speranza di riafferrarlo e di raggiungerlo un giorno, ed io potessi sostituirmi a lui e diventare lui un'altra volta. Come se, dopo aver percorso la vita, tutta la vita, dopo f orrore e la noia, dopo lo schifo e il ribrezzo, mi fosse dato di riarrivare a quel punto, di riassottigliarmi, di rimpiccolire, di ridiscendere, e tra le nebbie non del passato ma dell'avvenire, ritrovare la mano del sor Giuseppe, quella mano che mi stringeva così forte, nell'attravversare le piazze, per paura delle carrozze, bighellonare un'altra volta per le vie del centro, rientrare nella bottega del Tedesco, e rivedere i minimi esseri saltellanti sull'ovatta pazzi di gioia, e raccontare tutto ancora a que' due che da un anno all'altro stavano muti e dolorosi, nella solita stanza, a leggere e a pensare.
Dubitavo talvolta d'aver sognato. Ma (questa è storia recente) il corso degli eventi della mia vita d'un uomo qualunque fece sì che anch' io, alcuni anni fa, una sera, mi trovassi sdraiato (e non saprei proprio precisamente dire come fossi arrivato a trovarmi così), sulla paglia, insieme con tanti altri fiorentini che non avevo mai visti ma che avevano in comune con me d'esser nati in uno stesso anno.

Parte seconda

Ettore Allodoli (Firenze, 6 febbraio 1882 – Firenze, 26 maggio 1960)
Nel 1921 pubblicò la sua prima opera narrativa, Il domatore di pulci e altri fatti della mia vita (Firenze), che venne segnalata dalla critica per il tono delicato e intenso, lo stile limpido e finemente ironico. Si tratta di bozzetti e memorie dell'infanzia dell'A., ricordi di figure bizzarre, come appunto il domatore di pulci del titolo che impressionò la fantasia del bambino accompagnato dal nonno alla fiera domenicale; e ancora suggestioni ed evocazioni della Firenze di fine secolo, di affetti familiari, velate di malinconia e di un pacato tono crepuscolare che suggerì a P. Pancrazi l'attribuzione alla prosa dell'A. di una prevalente ispirazione di “pessimismo inerte”.

 

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